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di TONINO PERNA

CON la pubblicazione della prefazione di Eugenio Scalfari al libro di Giorgio Bocca (Aspra Calabria, Rubettino, 2011) questo giornale ha aperto un dibattito che può risultare fruttuoso solo se superiamo il vecchio gioco dei buoni e dei cattivi, dei nordici razzisti e dei suddisti sfruttati e disprezzati. Sicuramente negli articoli di Giorgio Bocca del 1992, che adesso vengono ripubblicati nel volume citato, le note di razzismo antropologico, i richiami alla “razza maledetta” di cui ha dato ampia testimonianza un bel libro di Vito Teti di alcuni anni fa, sono elementi difficili da digerire per un meridionale che ama la sua terra e lotta per il suo riscatto. D’altra parte, lo stesso Bocca nel 1990 pubblicò un libro, “L’inferno”, dedicato al Mezzogiorno “irredimibile” che fu un best seller e contribuì a rafforzare la cultura leghista nascente. Detto questo, Bocca ha dimostrato nella sua lunga carriera di essere un grande giornalista e di aver fatto qualche volta autocritica (per esempio nei confronti della Lega ), ed ha anche amato il nostro Sud a modo suo, come lo può fare un giornalista. Se fosse stato uno studioso di scienze sociali avrebbe avuto modo di leggere la storia sociale del Mezzogiorno, avrebbe fatto i conti con il profondo processo di deindustrializzazione – e relativa delegittimazione del mercato – che colpì questo territorio nel ventennio 1951-1971, con la chiusura di oltre 17.000 piccole e medie imprese industriali nei più svariati settori (dal legno e mobilio all’industria alimentare, dai minerali non metalliferi all’industria dell’abbigliamento, tessile e calzature, ecc.). Se avesse studiato i volumi della grande inchiesta sulla Basilicata e la Calabria condotta, a piedi o sul dorso di un mulo, dall’on. Francesco Saverio Nitti avrebbe capito quali fossero le contraddizioni sociali di queste terre ed il ruolo nefasto giocato dallo Stato sabaudo quando, per fare cassa, mise in vendita i terreni demaniali, soprattutto boschivi, causando disboscamenti selvaggi, dissesto idrogeologico e incremento della malaria e dell’emigrazione: «un’economia più selvaggia e distruttiva non si potrebbe immaginare» (F.S. Nitti, 1910, p. 69). Ma, anche se avesse avuto la pazienza di leggersi le pagine indimenticabili di Umberto Zanotti Bianco, piemontese come lui, avrebbe scoperto perché lo Stato nazionale in queste terre estreme dello stivale era visto, a ragione, come nemico, usurpatore e sfruttatore.

Diverso è il discorso che va fatto sulla prefazione di Eugenio Scalfari alla raccolta di articoli di Giorgio Bocca. Il fondatore di Repubblica mette giustamente in luce le qualità giornalistiche dell’allora corrispondente Giorgio Bocca e tenta altresì un’analisi di questi ultimi venti anni. Registra il fatto che i boss della ‘ndrangheta hanno mandato i figli all’Università, che con i 150 miliardi di affari le diverse mafie del Mezzogiorno comprano aziende e palazzi, casinò e resort , e sono entrate nel mondo della finanza. Poi aggiunge «i capi vivono ancora nei tuguri sulle montagne o sono al carcere duro e continuano a mandare ordini…» E, dopo lunghe citazioni delle pagine di Bocca, conclude «i vari Macrì e Piromalli sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca. “Money money money”, un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria “meno male che Silvio c’è”. Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà e il mistero doloroso diventerà gaudioso. Che altro potremmo fare se non coltivare questa speranza?»

Difficile trovare una conclusione più disperante e disperata che, per magra consolazione, si appende ad una vaga “speranza”. Peccato. Mi sarei aspettato di più da uno dei più grandi giornalisti ed intellettuali italiani. Soprattutto di più da un raffinato “politico”, nell’accezione più alta del termine. Scalfari, infatti, ha fondato nel 1976 la sua Repubblica su un progetto politico-culturale preciso: modernizzare l’Italia, farla uscire dal cappio del bigottismo ipocrita quanto dalle fauci della “razza padrona”, termine coniato dallo stesso Scalfari per descrivere la borghesia di Stato che gestiva/dilapidava a suo piacimento le grandi imprese pubbliche negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Scalfari, liberale convinto, ha portato avanti per molti anni un progetto politico di sdoganamento del Pci in cambio di una adesione totale di questo partito alle regole del mercato capitalistico. Credeva, come tanti nel Pci di allora, che l’Italia meritasse una migliore classe dirigente e che la borghesia colta ed illuminata -attraverso il “compromesso storico” con la Cgil ed il Pci – potesse portare l’Italia verso una forma di socialdemocrazia avanzata, liberandola dalle rendite parassitarie e dai retaggi clerico-fascisti.
Il progetto politico di Scalfari-De Benedetti è naufragato con Tangentopoli. La caduta della Dc ha portato al potere una nuova classe dirigente che niente ha avuto (ed ha) a che fare con la borghesia illuminata e l’auspicata modernizzazione del paese. Per questo il suo giornale è diventato uno dei più acerrimi nemici del berlusconismo, inteso nell’accezione politico-culturale. E Scalfari, colpito dal fallimento del suo progetto, non è riuscito a guardare oltre. I suoi migliori approfondimenti hanno riguardato la sfera esistenziale, il rapporto tra religione e fede, ma non i mutamenti sociali e politici. Lui rimane un grande liberale del Novecento. Ma, le categorie del secolo scorso non ci fanno vedere la metamorfosi delle nostre società.
La Calabria odierna, a partire dalla provincia reggina, è profondamente diversa da quella che incontrò Giorgio Bocca venti anni fa. Il porto di Gioia Tauro, che Bocca vide solo come luogo utile al contrabbando, è diventato il più importante porto per il trashipment nel Mediterraneo. E se adesso è entrato in crisi non si può dire che è colpa solo dei soliti calabresi, ma bisogna riconoscere l’inerzia dei governi nazionali ed il ruolo nefasto giocato da altri porti del centro-nord. La ‘ndrangheta è passata dai sequestri di persona ad holding finanziaria, la più rilevante organizzazione criminale italiana ed una delle più forti del mondo. Soprattutto è diventata un’altra cosa. Fa parte della cosiddetta “borghesia mafiosa”, la nuova classe dirigente che ha conquistato il potere in tanti paesi: dal Messico alla Russia di Putin, dalla Nigeria alla Colombia, dal Kossovo alla Tailandia, ecc. E poi, sia detto per inciso, i capi clan non abitano in tuguri (quando non sono latitanti) come scrive Scalfari, ma in sontuose ville, come è testimoniato dalle confische effettuate dalla magistratura. Sono i nuovi capitalisti che hanno sostituito la grande borghesia industriale italiana, e non solo, che ha abbandonato il territorio di appartenenza, con la delocalizzazione delle imprese, perdendo legittimità sociale e politica. Da Olivetti a Marchionne c’è stato un salto nella dirigenza delle grandi imprese che ha lasciato un vuoto di legittimità che la nuova borghesia mafiosa ha in gran parte conquistato.
D’altra parte, sul piano della cosiddetta “società civile” molte cose sono cambiate. In Calabria, il consolidarsi delle tre Università, la nascita di centinaia di associazioni ha prodotto un tessuto sociale e culturale molto più ricco di quello che incontrò Giorgio Bocca vent’anni fa. Non è un caso che la Bocassini, famoso giudice milanese, ha recentemente denunciato l’omertà degli imprenditori lombardi di fronte al risveglio sociale e culturale, alla ribellione di tanti imprenditori del Mezzogiorno che hanno denunciato il pizzo e le sopraffazioni del sistema di potere mafioso. Anche in Calabria ed anche nella provincia reggina. La grande manifestazione anti-‘ndrangheta promossa da questo giornale l’anno scorso, era impensabile venti anni fa. Ma, la stampa nazionale se ne è accorta ?

Il Mezzogiorno, la Calabria e lo stesso Aspromonte non sono più aree “arretrate” in attesa dei salvifici interventi dello Stato o dei capitalisti del nord. Sono territori, pieni di contraddizioni che devono fare i conti, come il resto d’Italia, con i guasti della globalizzazione, con il rischio default dello Stato nazionale, con la fine della crescita economica e della religione del Pil. Ma, sono anche territori vissuti da soggetti sociali che reagiscono ogni volta che trovano un punto di riferimento ed un progetto politico-culturale condivisibile e mobilitante. C’è un altro Sud – cresciuto all’ombra dei mass media – che sta emergendo e che sui grandi temi – dai beni comuni (a partire dall’acqua) al mercato equo e solidale, ai diritti sociali e civili – sta incontrando e cooperando con la parte migliore del centro-nord, con un occhio sempre più attento ai popoli del bacino del Mediterraneo. Questa è più di una speranza: è una direzione possibile e praticabile.

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