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di FRANCO LARATTA
Archiviata l’intensa competizione elettorale – trasformata dal governo in referendum per legittimare la sua azione, e ripudiata ad urne chiuse perché una manciata di sindaci sfigati, seppur del colore amico, non costituiscono un valido test per la salute della maggioranza – è interessante mettere in fila qualche riflessione, salita in queste ore grazie alla spinta dei tanti stimoli raccolti nelle scorse giornate. Queste amministrative-convengono i giornali che fanno i giornali-saranno ricordate per la scoppola al “berlusconismo”, una rinnovata partecipazione popolare e il “gran rifiuto” di Gigi D’Alessio a cantare per gli antimusicali destrorsi milanesi, istigati già al matricidio dalla barcollante coreografia sull’inno alla mamma offerta dalla propria candidata. A guardare le performance di molti primi cittadini in pectore, sembrerebbe che lo spettacolo abbia inghiottito la politica, dettando a quest’ultima linguaggio e tempi, e accelerando quel processo di personalizzazione che, incoraggiato dalla crisi dei partiti e congeniale alle tecniche narrative dei media, ha consacrato come elemento chiave della comunicazione politica le qualità individuali del candidato e non il suo progetto di società, elaborato nel partito o nella coalizione di cui egli è espressione. L’immarcescibile palchetto “maremonti” dal quale si seducevano gli elettori sbrodolando con enfasi programmi che gli avversari (e non solo) non avrebbero realizzato neppure ingaggiando Harry Potter, diventa un set incandescente nel cui perimetro nessun dettaglio è lasciato al caso. La superficie calpestata si amplia per consentire al political showman di esibirsi in canti, balli, barzellette. O, in assenza di vocazioni (quella politica inclusa), di ripiegare sul narcisismo da attore di fotoromanzi o bulletto di quartiere. Declinazioni al maschile, sessiste, ma obbligate, perché anche stavolta, salvo timide eccezioni, le donne hanno disertato l’appuntamento, inchiodate dai loro sindaci, presidenti, governatori, a gestire quelle pari opportunità e quelle politiche sociali che in alcuni momenti fanno rimpianger loro una più gratificante occupazione casalinga tra fornelli e ramazze. La versatilità, e il carisma più o meno certificato degli aspiranti sindaci riempiono le due ore del nuovo format di comizio. La liturgia dello show taglia i prolissi elenchi che annoiano tanto chi legge quanto chi subisce. La megalomania nel promettere è compressa in ermetici concetti, orfani di argomentazione. Centrifugando sicurezza, extracomunitari, tasse, lavoro, ambiente, pace nel mondo, colesterolo, se ne ricava una poltiglia indistinta che gli spettatori, adoranti a prescindere, una volta scelto il beniamino a cui votarsi, divorano avidamente negandosi l’esperienza del gusto e aumentando il rischio di imminenti rigurgiti. The show must go on! L’incalzante scaletta prevede il concerto di Pinco Pallo nel quale ciascuno potrà agitare gli accendini, temporaneamente sottratti ad impieghi più drastici. I colpi bassi al rivale rappresentano un fuori programma condannato dalla nobile politica, ma non certo una novità. Le recenti cronache registrano un aumentato ricorso ai mezzucci subdoli: dossier sapientemente confezionati, indiscrezioni ad orologeria, infondati sputtanamenti. Un machiavellismo spregiudicato, indispensabile per chi rincorre il potere senza scrupoli. Biasimevole per tutti gli altri. L’elemento inedito di questa tornata elettorale però è senza dubbio l’asta: punti del programma contrattati, cancellati, emendati in corsa. Una temporanea, necessaria accondiscendenza ai capricci del cittadino per evitare rilanci ancora più magnanimi del diretto contendente, efficaci a spostare il voto. Non deve scandalizzare se nell’agenda di un liberista si fa spazio a gomitate qualche welfare di troppo, e il tazebao affisso nella segreteria del candidato rosso sensibilizza i passanti sulla riduzione della pressione fiscale a favore dei ceti medio-alti. Sono solo illusioni ottiche, acustiche, che spariranno a mandato incassato. La gente, anticipavamo, è tornata a schierarsi: le note vicende boccaccesche del premier, una crisi blandamente contrastata, il desiderio di affidare il Paese in mani più sicure, hanno mobilitato, come non si vedeva da tempo, anche i più disillusi. Per questo motivo, quelle che ci siamo lasciate alle spalle, sono elezioni amministrative con un’innegabile cifra politica. Elezioni che, nei casi più emblematici, hanno strizzato l’occhio alla tradizione statunitense, nella quale la personalizzazione ha radici più antiche, e ogni uscita pubblica di un candidato è un evento capace di attrarre sostenitori pronti a metter in scena quel delirio rintracciabile solo nei concerti rock. Molti politici nostrani che fino al giorno prima avevano al massimo scimmiottato la versione karaoke dei successi di Peppino di Capri, col pass elettorale in tasca si ritrovano acclamate rock star, pur non avendone il fisico. Portati in festa, sequestrati in alcuni casi, ignari del difficile ruolo che li attende e dell’alto livello di aspettative che la gente nutre essendo l’autorità a loro più prossima, sostano tra i fumi dell’ebbrezza, compiacendosi dell’onore tributatogli, rimuovendo, per non sgonfiare l’ego, il meccanismo alla base delle consultazioni in tempi di crisi. Le preferenze, in tali periodi, non sono ascrivibili integralmente alle virtù taumaturgiche del candidato, ma vengono intercettate per la ricorrente delusione nei confronti di chi ha governato prima. In un sistema bipolare, anche azzoppato come il nostro, chi non è militante tende a votare “contro”, più che a favore. Il cittadino, stretto all’angolo da congiunture sfavorevoli, destituisce il governo affidando le speranze di cambiamento a chi è percepito nell’immaginario come novità. Esser nuovi però non basta. Non basta la buona volontà del singolo per risolvere problemi complessi. Il passaggio dagli osanna alla lapidazione è dunque repentino. Il processo breve degrada in giustizia sommaria, adottando i tempi televisivi. Scavalca agilmente i gradi di giudizio pur di sfornare caldo un imputato, colpevole o meno, da offrire in pasto al pubblico per sfamare le frustrazioni collettive. La gente crea idoli a cui delegare in bianco il proprio futuro, ma ne chiede il martirio al primo flop. Le parti sono al corrente che spropositate ambizioni elettorali non abbandoneranno la carta, ma il gioco dei ruoli prevede un fan credulone e un politico millantatore e/o incapace perché si attivi la protesta da cui far discendere nuovi leader “a progett”’ nei quali incarnare la speranza del nuovo, puntualmente trascinata. Ciò che può spezzare questo circolo vizioso è l’affermazione di un’autentica cultura della partecipazione. Lo spiccato livello di interazione consentito dal web 2.0 impone una rivoluzione nei rapporti tra cittadini e loro rappresentanti, le cui manovre, annunciate da tempo, incontrano diffuse resistenze. Il politicante teme il cane da guardia on line: che ne sarebbe della sua “discrezionalità”? Apparire nudi ai propri elettori, senza un asciugamano che copra le zone sensibili, è un morboso attentato alla privacy. Il politico, per contro, agevola la comunicazione orizzontale e ne coglie le potenzialità. Si offre al dialogo coi cittadini, li sprona, si fa spronare, incurante se lo stretto contatto lo esporrà nel breve termine a molte più critiche e frizioni: esse costituiranno l’humus sul quale consolidare il rapporto di fiducia, ottenere giudizi meno ballerini dall’opinione pubblica e più ancorati all’effettivo rendimento. Il disegno è incompleto senza la firma del cittadino, che dovrà interessarsi alla cosa pubblica, e concentrare su di essa tutte le energie assorbite tradizionalmente da un qualunquismo travestito da alibi. La politica, nell’era dell’immagine, deve paradossalmente rinunciare ai lustrini e recuperare la sua funzione originaria. Non ha bisogno di volubili rock star vezzeggiate da platee con marcate escursioni umorali. Le basta la responsabile cooperazione tra rappresentanti e rappresentati. Sempre che il bene comune, quello della polis greca e non brianzola, sia per tutti ancora una valida causa per la quale impegnarsi.
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