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di FRANCO CIMINO
Quando non trova il tempo di dire che è il miglior presidente del Consiglio della storia d’Italia, Silvio Berlusconi vanta con orgoglio di essere il maggior contribuente italiano. La seconda affermazione è sicuramente vera. Giovanni Brusca, nell’udienza del processo Mori, dichiara che il cavaliere Berlusconi, imprenditore di successo in Milano, per lunghi anni ha pagato 600 milioni al mese ad un altro Stato. Quello criminale che si contrappone allo Stato costituzionale: la mafia. Questa dichiarazione del pentito eccellente, che in moltissime confessioni si è dimostrato attendibile, mi affida alla protettiva formula Benigni: «Io non l’ho detto, sicuramente non ci credo, se anche fosse vero io penso che vero non sia». Così confermo che non è vero. Sarebbe infatti gravissimo che a guidare il Paese per due terzi degli ultimi vent’anni, sia stato un ricco imprenditore che ha riconosciuto nella mafia un potere di garanzia del suo lavoro e di tutela dei suoi affari. E’ difficile individuare in quest’atteggiamento un reato perseguibile dal Codice penale. E se anche vi si riuscisse, chi non voglia giudicare la politica nei tribunali dovrà affidarsi a quel principio fondamentale della democrazia, secondo il quale chi rappresenta le istituzioni e giura ad esse fedeltà non può e non deve essere soggetto a qualsiasi altro potere non legittimo. Pertanto, inseguire per anni Berlusconi sul terreno giudiziario invece che combatterlo su quello politico e morale, è stato un errore gravissimo, del quale porta le principali responsabilità una sinistra confusa e priva di orientamento. Ma lasciamo stare il presidente del Consiglio alla conveniente collettiva certezza che l’ex mafioso Giovanni Brusca non dica il vero, pur se occorre ricordare che lo stesso Brusca ha scagionato Berlusconi dal sospetto di aver complottato con la mafia all’epoca dello stragismo mafioso. Trattiamo la questione sollevata, che è di grande interesse. Per almeno due aspetti, che muovono due domande. La prima: fino a quale limite un esercente attività economica può sottoporsi al ricatto della criminalità subendo, la pratica del pizzo che lo sostanzia, senza che la collettività metta a serio rischio la sua tenuta civile e il suo equilibrio democratico? La seconda deriva dalle statistiche che ripetono, come un refrain, la lettura di un quadro stile Chicago anni ’30: la maggior parte delle attività economiche è taglieggiata, non denuncia e si affida all’amorevole protezione della criminalità organizzata. Come può consentirsi un Paese democratico tutto ciò? E fino a quando? Al Sud questo quadro si tinge di nero profondo. I dati rivelati parlano di un taglieggiamento esteso fino quasi al cento per cento delle imprese economiche. E’ evidente che il Sud viva, già da tempo, su due livelli. Uno, apparentemente legale e l’altro illegale. Uno nel quale agisce la legge e l’altro nel quale si impone la costante violazione della legge. Uno nel quale governa lo Stato e l’altro in cui comanda l’antistato. Uno nel quale l’economia ufficiale attiva risorse, anche pubbliche, l’altro nel quale parte di quelle risorse vengono sottratte per essere reimpiegate nell’economia occulta e criminale. Dove c’è di tutto. Un’altra economia, quella drogata da soldi sporchi ed imprese fantasma. Una certa imprenditoria che opera con la forza e altera la libera concorrenza, senza la quale le imprese piccole ed oneste muoiono. C’è un dato che resta sullo sfondo ed è ancora scarsamente analizzato. Riguarda il rapporto speculare tra attività che nascono come funghi e quelle che in egual numero muoiono come farfalle. In una situazione siffatta lo sviluppo è impossibile, perché un’economia fondata sulla circolazione criminale delle risorse, diventa cellula cancerogena che invade tutto il corpo della società. La politica è il primo organo che ne risente. Innanzitutto, perché non ha la forza di contrastare il fenomeno ed avviare quel cambiamento che ripristini la legalità e quindi la pienezza della democrazia, che di essa si alimenta. E poi perché, governando i processi economici, la politica è costretta ad allearsi, e quindi a cedere, con il potere mascherato, che ora trova la sfrontatezza di rappresentarsi direttamente nelle istituzioni e non più per interposta persona. Nonostante i successi conseguiti dalla magistratura e dalle Forze dell’ordine, è difficile uscire da questo dramma. Il motivo è presto detto: se non nascerà una nuova classe dirigente che progressivamente sostituisca quella vecchia e rapidamente cambi il modo stesso di affrontare i problemi, ponendo al primo posto la questione morale che è fondamentalmente questione democratica, il Sud resterà terra di nessuno o al massimo luogo di reclutamento di manovalanza criminale e palestra di formazione di nuovi mafiosi. E c’è poco da ben sperare se al Sud, mutuando la metodologia berlusconiana di selezione della classe dirigente, quelle poche novità arrivano dall’establishment economico-imprenditoriale. Lo stesso che è lungamente sottoposto al racket delle mafie, che solo pochi hanno trovato il coraggio di denunciare, pagando prezzi ancora più duri. Sono certamente gli imprenditori le vittime, ma quando si trasferiscono nelle istituzioni, specialmente negli enti locali, come non temere che essi possano subire ricatti maggiori, che condizionerebbero l’esercizio delle loro funzioni? E’ questa la riflessione che nasce dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca. Non farla sarebbe grave. Non averla fatta tanto tempo prima è inquietante.
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