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di SARA LORUSSO
Dalla Russia per vestire i panni del conte E’ lui quello a cui “tocca” il ruolo del conte de Guevara. Lo fa da talmente tanti anni, che non riesce a dare una data precisa dell’avvio di questa tradizione «personale». «Va bè, più o meno negli anni ‘90», quando Michele Lebotti era ancora “soltanto” uno dei ragazzi dei Portatori del Santo, «di cui ancora oggi sono parte», spesso uniti anche dalla passione per il basket. Adesso, top manager di una multinazionale russa del settore dell’acciaio, passa praticamente tutto l’anno dividendosi tra Mosca e il resto d’Europa, con due sole «irrinunciabili» eccezioni all’anno. Potenza è meta da cui non si scappa a Natale, con forte richiamo familiare, e a San Gerardo, «per richiamo di identità». All’appuntamento non manca mai, anche perché il ruolo del conte Alfonso, che nel 1.500 si vide consegnare le chiavi della città sembra calzargli a pennello. «E’ cominciata per caso, quando, un anno, il “titolare” del ruolo non fu disponibile. Chiesero un po’ in giro e vuoi perché sono alto, vuoi perché mio padre si chiama Alfonso, ho vestito questi panni e non li ho più lasciati». Inconfondibile nel costume nero che a lungo ha caratterizzato il personaggio, accompagnato nella sfilata dalle bambine che impersonavano le figlie del nobile vedovo. «E così sono nati anche bei rapporti con le famiglie. La cosa divertente era ritrovare questi ragazzi, tutti quelli che partecipavano alla sfilata, a distanza di dodici mesi, sempre più alti e sempre più grandi, praticamente irriconoscibili». Quante risate e «quanta nostalgia per la mia città, i miei amici, mentre sto fuori». I contatti, per carità, non si perdono. Ma il ritorno per la festa del patrono è tutta «n’altra cosa. Ormai è un rituale. Capi e dipendenti dell’azienda lo sanno, non dicono più niente». Dalla Basilicata a Salerno, poi le specializzazioni, l’esperienza in Germania, fino all’approdo in Russia. Tifoso, «tifosissmo» del Potenza calcio, tanto da non aver perso una trasferta finchè ha potuto e artefice del tentativo, con altri potentini emigrati a Mosca, di aprire all’ombra del Cremlino un fan-club rossoblu. Un concentrato di potentinità che ha radici antichissime, con tanto di soprannome (c’voluogl’), affibbiato ai suoi avi che da Forenza – ma tante e tante generazioni fa – raggiungevano il centralissimo vico Addone per vendere l’oilio. Chi lo vuole? «Come è cambiata la città in questi anni? Tanto, sicuramente, forse in peggio. Ogni volta che torno, vedo sempre meno alberi e sempre più cemento. Vogliamo parlare dei ragazzi? Ne ho conosciuti tanti, della mia generazione, preparati, in gamba, che hanno poi trovato altrove la realizzazione personale e professionale». Quanto all’appuntamento del 29 maggio, «negli anni è cambiato tanto e tante volte, ma forse un giudizio complessivo dall’interno è difficile. Piuttosto penso a quello che la parata potrebbe diventare. Perché non farne anche il punto di arrivo di un investimento, che non penso costerebbe molto, per realizzare, magari, una scuola di musici o sbandieratori, a cui addestrare ragazzi del posto, pronti a sfilare per il patrono?». Questione di identità, da coltivare e radicare. Cominciando, però, «con l’orgoglio per la propria provenienza. Mi capita spesso di incontrare altri lucani, anche potentini, che però, quando sono all’estero, alla domanda “da dove vieni?”, magari per evitare ulteriori spiegazioni, rispondono “vengo da Napoli”. Io invece no, non ho timore. Sono di Potenza, anzi di Putenza. E se non capiscono, pazienza, glielo spiego».
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