X
<
>

Share
3 minuti per la lettura

Allorquando tutti gli indagati di “Toghe lucane” furono archiviati a Catanzaro, dopo che avevo commentato con fastidio le inchieste urlate e scioltesi come neve al sole di De Magistris, qualcuno avanzò la richiesta di non giudicare i magistrati pretendendo da loro come garanzia di efficienza e di serietà la riuscita (nel senso di una condanna) di un’indagine. E’ vero: un’indagine non viene svolta con la promessa di una condanna, ma è soltanto una notizia di reato che viene vagliata, dibattuta, soppesata attentamente da parte e controparte. Perciò quando ieri è stata divulgata la notizia del proscioglimento (“perché il fatto il non sussiste”) del deputato del Pd Salvatore Margiotta, accusato da Henry John Woodcock di corruzione sul fronte petrolifero, non ci ha indignato a posteriori l’esito positivo (per Margiotta) della vicenda giudiziaria, ma il grave dislivello, ancora una volta abnorme, tra la ricezione mediatica dell’indagine (divulgata a livello nazionale) e quella, assai attutita, del proscioglimento (divulgata soltanto a livello locale).

Non penso che la vicenda petrolifera lucana sia stata globalmente gestita, nell’arco di un quindicennio, con serietà e competenza dalla nostra classe politica e, proprio a causa di questa deficienza politica, sono convinto che sia stato controproducente trasformare, in sede di dibattito pubblico più o meno sotterraneo, una critica tecnico-politica in una critica giudiziaria. Perché il rischio, a quest’altezza, è soltanto quello di rafforzare, se c’è – e io credo che ci sia –, la cattiva politica, quella delle contiguità con gli affari e dell’uso dei quadernoni degli elettori schedati. Finché non ci lasceremo alle spalle la pre-politica demagogica e ricattatoria delle “vie giudiziarie al bene” e, finché, in sostanza, le inchieste verranno brandite come clave chiodate nel dibattito pubblico finanche dai “finti amici”, la magistratura, anziché essere, come dovrebbe essere, sobria istituzione di verità, risulta essere soltanto penoso crocevia di personalismi, rabbie oscure, messaggi, manovre politiche trasversali.

I sereni proscioglimenti di “Toghe lucane” e “Totalgate” dimostrano invece che al netto di pochissimi personalismi ostinati – ormai rubricati come brutte pagine del passato politico calabro-lucano – la magistratura ha riacquistato serenità, terzietà e sobrietà, anche se da lontano qualcuno cerca ancora di manovrare fino alla fine gli epigoni sciocchi rimasti nelle Procure, finalmente “bonificate” dai cavalieri della giustizia assoluta e del successo personale.

Rimane comunque deficitaria, in conclusione – sia in sede storica, sia in sede giornalistica, sia in sede politico-civile – una riflessione pacata e oggettiva sull’esperienza di Woodcock in Basilicata. Capisco che molti suoi fiancheggiatori e consiglieri abbiano tutto l’interesse a tacere, ma perché non prendere almeno atto – al di là del fatto che nessuno dei suoi eccellenti indagati è stato condannato in via definitiva – che la sua attività ha sortito come unici effetti quello di compattare il potere ristretto di vertice, e quello di permettere ad alcuni suoi esponenti di aprire segretamente canali preferenziali con chi seminava il terrore?

Non basta avere “fiducia nella magistratura” come sussurrano i vili mascherati da moderati, bisogna anche saper fare il conto esatto – ecco cos’è il coraggio, cos’è la vera politica dei galantuomini – delle vittime ingiuste, degli sputtanati, dei silurati, dei manovratori, di chi nottetempo faceva gli occhi dolci a Robespierre. Preferendo, alla “rivoluzione” delle forche, i benefici del terrore.

Andrea Di Consoli

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE