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«COMINCIAMO con il dire che alla parata dei turchi non vogliamo consegnare alcuna rigidità. Abbiamo solo messo un po’ di ordine in una rievocazione che, negli anni, si era trasformata tante volte». Da mesi il comitato scientifico nominato per l’evento che la città aspetta ogni anno è all’opera tra documenti storici, ricerche, organizzazione. Da qualche giorno è pronto il disciplinare, il documento che fisserà in alcuni punti le caratteristiche della manifestazione. Tanto perchè, nel futuro, chiunque sia a capo dell’amministrazione, non possa modificare “a proprio piacimento”. Salvo un parere favorevole del consiglio comunale. E proprio il consiglio dovrà adesso valutare il contenuto del disciplinare: la prima pronuncia è attesa in commissione nel corso della settimana prossima. Nel frattempo, però, in città, associazioni, singoli, uffici comunali stanno macinando incontri e calcoli: tra budget (scarso) e voglia di fare, «ciascuno mette a disposizione quello che sa fare». Ed è questo il primo appello che arriva dal comitato: «Partecipate, tutti, ma proprio tutti». Antonella Pellettieri, presidente del comitato (gli altri componenti sono don Gerardo Messina, Claudio Paternò, Gerardo Viggiano) sa che «quella dedicata a San Gerardo è l’unica festa in cui tutta la comunità potentina si riconosce davvero. Ognuno può fare qualcosa. E se non si ha voglia di essere parte attiva della parata da figurante, si posso mettere a disposizione le proprie competenze». Nell’organizzazione «c’è tanto da fare».
Nel frattempo, qualche punto fermo è stato messo. La “sfilata” dei turchi è diventata “parata”, nel logo come nella bozza di disciplinare. C’è, però, chi ancora non ha “metabolizzato” il cambiamento. «Un momento, non vogliamo irrigidire nulla – spiegano dal comitato – Cominciamo a parlare di “parata” perchè una “sfilata”, proprio come quelle di moda, cambia di volta in volta. La parata è qualcosa di più ordinato, con delle regole, ma non per questo priva di originalità». Nel caso specifico affidata ai saluti spontanei nella folla, alle chiacchierate dei figuranti, alle interpretazioni. Al bando, invece, orologi moderni, cellulari in mano, sigarette accese, scarpe high tech. Cozzerebbero. Lo dice pure il disciplinare.
Se le polemiche sono parte integrante della festa, («e fanno bene»), è anche vero che l’idea è quella di non replicare errori. «Certo che ci siamo ripiegati, fin da qualche giorno dopo la parata dello scorso anno», una sorta di sperimentazione zero. «Vogliamo mantenere ciò che ha funzionato ed evitare quello che è andato storto. Ma nulla è stato inventato. Dietro – assicurano – ci sono studi approfonditi».
E’ il 1957 quando l’amministrazione comunale decide di prendere in mano una festa che, fino a quel momento, era stata di esclusivo appannaggio popolare. Da allora si sono moltiplicati comitati, commissioni, edizioni, versioni. Un po’ come una «tela di Penelope», ha fatto notare più volte don Messina, memoria storica dell’evento: si fa e si disfa con frequenza.
Quest’anno resta invariato l’impianto sperimentato nella scorsa edizione: tre quadri, ciascuno con un riferimento storico preciso. Quello finale è «il quadro religioso», legato al 1111, anno in cui Gerardo diventa vescovo. «E’ il personaggio in cui tutti i potentini si riconoscono». Il quadro sulla preparazione della festa, invece, che dovrebbero prendere le mosse dal primo pomeriggio, rievoca la Potenza dell’800: il popolo si prepara e si traveste, mentre i nobili della città stanno a guardare un po’ altezzosi. A Porta Salza, sarà la volta del quadro dedicato al XVI secolo. E’ del 1578 il documento del notaio Scafarelli che racconta della rievocazione di una battaglia sul mare, inscenata dai potentini in onore dell’arrivo del conte Alfonso de Guevara. Si bruciano finti castelli, i bambini si vestono di bianco, si percorre la via Appia fino al centro storico, dove il mastro giurato offre le chiavi della città al conte, «a patto che Potenza conservi privilegi». Nei secoli successivi, quella rievocazione, deve essere tanto piaciuta al popolo, che è stata replicata, fino a fondersi con altri miti, compreso quella del corsaro, terrore del Mediterraneo: a Potenza si trasforma in “Civuddin”. Irrinunciabile, ormai, come la nave del Santo trascinata dai mori. A metà tra tradizione e leggenda. Ma così popolare che non se ne fa a meno.
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