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di KATIA STANCATO*
È un interrogativo quanto mai aperto, soprattutto dall’approvazione del decreto legislativo n. 85/2010 che dà attuazione alla riforma sul federalismo fiscale (L. 42/2009), avviata già nel 2001 con il riassetto delle competenze tra Stato e Regioni conseguente alla modifica del Titolo V della Costituzione. Si tratta di un provvedimento che ha avviato un processo di rinnovamento, che è destinato a ridisegnare, oltre che la finanza e la fiscalità pubblica, anche il sistema delle autonomie e, insieme ad esso, il sistema di welfare.
Nell’ultimo trentennio, analogamente a quanto avvenuto in altri Paesi europei, l’architettura istituzionale del nostro Paese è andata trasformandosi con un progressivo decentramento di poteri e competenze, che ha investito in primis il settore dell’assistenza. In assenza di disposizioni nazionali vincolanti i governi regionali, e talvolta anche quelli comunali, hanno strutturato il proprio sistema socio-assistenziale secondo logiche differenti, dipendenti dalla domanda sociale espressa dai territori, ma anche dalla sensibilità politica, dalle capacità istituzionali e dai vincoli finanziari, con differenze importanti in termini di esigibilità dei diritti sociali a livello territoriale. Questi mutamenti sono avvenuti con intensità e tempi differenti fra le regioni italiane, tanto che i sistemi locali di welfare hanno sperimentato una differenziazione di gran lunga superiore a quella che si può trovare in sistemi nazionali da tempo federali. Un tale processo ha prodotto una disparità nell’accesso a servizi e prestazioni che non dipende tanto dalla condizione di bisogno, quanto piuttosto dal luogo di residenza dei destinatari; non è un caso che già nell’ormai lontano 1997 venisse utilizzata l’espressione “federalismo senza principi” per caratterizzare il settore dell’assistenza. La dimensione territoriale delle politiche non è ovviamente un male in sé, essa consente, infatti, la progettazione di interventi complessi e diversificati, tarati sulle specificità dei contesti locali, una più chiara definizione dei destinatari delle politiche e un maggiore coinvolgimento dei cittadini. L’attenzione a contesti circoscritti e la possibilità di costruire le politiche entro “interazioni situate” tra cittadini che condividono uno stesso territorio è un bene pubblico da salvaguardare e incentivare. Ma se ciò avviene in assenza di criteri di riferimento comuni, di obiettivi e prassi condivise, si rischia di produrre una sorta di «municipalismo selvaggio, di cuius regio eius et religio delle pratiche, dei modelli, dei titoli di cittadinanza e di appartenenza». Questo rischio è tanto più forte quanto maggiori sono le disparità di risorse prodotte localmente, sia di tipo economico che di carattere normativo e organizzativo, con evidenti ripercussioni sull’esigibilità dei diritti a prestazioni e servizi. Eppure sono proprio questi ultimi a garantire l’autonomia degli individui assicurando loro condizioni di vita dignitose, ad ancorare saldamente progetti di vita e aspettative per il futuro. Si consideri, poi, che non sempre la dimensione locale è la più adeguata ad affrontare problemi la cui genesi va, invece, collocata in più ampi processi di ordine politico, sociale ed economico, siano essi nazionali o sovranazionali. È per questo che Le Galès (2006) definisce le municipalità, ma potremmo aggiungervi nel caso italiano le regioni, come “società locali incomplete”, perché inadeguate a produrre cambiamenti significativi in ordine a problemi e dinamiche strutturali di più ampio respiro. Tali considerazioni paiono particolarmente pregnanti se rapportate alle forti disparità territoriali che caratterizzano il nostro paese e, in particolare, alle debolezze strutturali del Mezzogiorno. Si pensi alla cronica carenza di risorse, alle debolezze del mercato del lavoro, alla drammatica incidenza della povertà, nonché alle deludenti performance delle economie regionali meridionali e alle difficoltà di riconversione verso un sistema produttivo post-industriale. Basti, qui, citare alcuni dati tratti dall’ultimo rapporto Svimez (luglio 2010) che mostrano un Mezzogiorno in recessione colpito duramente dalla crisi nel settore industriale, che da otto anni consecutivi cresce meno del Centro-Nord, e che conserva persistenti sacche di povertà che coinvolgono il 22,5% delle famiglie con un’incidenza quattro volte superiore a quella osservata nel resto del Paese. Una tale condizione di svantaggio rende la transizione verso il federalismo alquanto complessa e delicata con un potenziale dirompente dal punto di vista delle diseguaglianze sociali che rischiano un aumento sostanziale, soprattutto nella nostra regione. In Calabria si registrano i tassi di natalità e di mortalità delle imprese più elevati rispetto al resto del paese e tassi di crescita nettamente inferiori. Negativi anche i dati sull’occupazione, con tassi di disoccupazione doppi rispetto a quelli nazionali, una forte presenza di disoccupati di lunga durata e una quota persistente di lavoro irregolare. Non più confortanti sono i dati relativi alla condizione socioeconomica delle famiglie, con il 27% delle famiglie calabresi al di sotto della soglia di povertà e circa una famiglia su quattro che non riesce a pagare nemmeno le spese mediche. A fronte di una domanda crescente di assistenza e servizi, la spesa sociale pro-capite in Calabria ha uno dei valori più bassi tra le regioni di Italia: meno di 20 euro a fronte di una media di 65,3 euro del Mezzogiorno e dei 344,2 euro della Valle d’Aosta. Alla luce di ciò il Forum Terzo Settore della Calabria, di cui sono Portavoce, si è fatto promotore di una Conferenza Regionale sul nuovo modello di welfare con l’obbiettivo di: analizzare gli assetti attuali e i processi di cambiamento in atto; fare una comparazione rispetto alle altre regioni del mezzogiorno d’Italia in collaborazione con gli altri Forum Regionali del Sud; dedicare un focus ai processi di riorganizzazione territoriale, in particolare il decentramento regionale delle politiche sociali e le loro specifiche implicazioni. Con la Conferenza vogliamo inoltre cogliere un’occasione di confronto con gli Amministratori regionali e comunali della nostra regione, per avviare una riflessione critica sulle conseguenze che il riassetto delle competenze sta determinando sul profilo sostanziale della cittadinanza sociale nel Sud del paese e nella nostra regione, e sui limiti del modello di solidarietà connesso all’attuale sistema di protezione.
*Portavoce regionale Forum terzo settore
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