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Non è mai facile sintetizzare i complessi e articolati saggi storico-politico-antropologici – figli dei più profondi temi di attualità meridionale – di Marco Demarco, direttore dal 1997 del “Corriere del Mezzogiorno” dopo un ventennio di permanenza nella redazione napoletana – per certi versi leggendaria – de “L’Unità”.
Il suo nuovo libro, intitolato Terronismo (Rizzoli, 266 pagine, 17 euro), è solo in parte una risposta a sangue caldo al bestseller neoborbonico e revanscista di Pino Aprile, che con Terroni (Piemme, 2010) ha letteralmente infiammato le platee risentite, autarchiche e frustrate del Sud, messe a dura prova dalle offese e dalle provocazioni leghiste, e dalla convinzione – sempre sopita e latente, tra i meridionali, in specie nei momenti di crisi sociale ed economica – che quella del 1861, allorquando “i piemontesi” conquistarono il Sud, fu una rapina, un saccheggio, un’invasione, la fine di una monarchia (quella borbonica) illuminata e progressista. Molto più saggiamente, per Demarco un punto di riferimento storiografico più equilibrato per capire e valutare il Regno delle Due Sicilie può essere, anziché il livido e cupo, ancorché affascinante La conquista del Sud di Carlo Alianello (Rusconi, 1972), la più articolata ed equidistante Storia del Regno delle Due Sicilie (Il Mulino, 1997) di Angelantonio Spagnoletti. La bibliografia di riferimento, si sa, è questione di metodo, e il metodo è contenuto.
Marco Demarco è un illuminista napoletano indolente, lucido, antiretorico, capace di una lettura concreta e distaccata della realtà e della storia, antiumorale, scettico, mai fanatico, meridionale quanto basta, anche se allergico all’ethos meridiano, alle mode etniche, alle favole filosofiche, alle distorsioni pseudo revisionistiche e ai ricompattamenti comunitari fondati su grumi irrazionali e demagogici, nostalgici e corporali. Lontano anni luce dalla facilità peripatetica di Luciano De Crescenzo – giustificatore compiaciuto di luoghi comuni – e altrettanto lontano dalla più pensosa, ma equivoca napoletanità di un La Capria, nonché massimamente diffidente nei confronti della palingenesi narrativa e morale di Roberto Saviano, Demarco è dentro quella corrente meridionalista che va da Giuseppe Galasso a Paolo Macry, entrambi collaboratori del “Corriere del Mezzogiorno”, una corrente che egli stesso definisce del meridionalismo critico e autocritico.
Da dove iniziare, però, un discorso su Terronismo? Forse dal titolo stesso – che lambisce, per assonanza, il termine terrorismo – e che, in estrema sintesi, è tutto ciò che al Nord persiste come pregiudizio ideologico, storico, politico e addirittura razziale nei confronti del Sud, e tutto ciò che al Sud ruota intorno all’estremismo dell’orgoglio, al revisionismo neoborbonico, all’essere fieri della propria storia, finanche dei propri difetti, dei propri crimini civili. I nemici del Sud, pare suggerirci Demarco, sono sia al Nord che al Sud, e sono tutti quelli che si abbandonano a “geografie immaginarie” (Said) e, diremmo noi, a “storie immaginarie”, alla superficialità del sentito dire, della fantasticheria. Ma ci sarà davvero spazio, in questo 2011 spartito a sorte da chi la spara più grossa, per un saggio che non aderisce alle tifoserie scalmanate di chi dirotta il fiume della storia per alimentare il proprio mulino “particulare”?
Il saggio di Demarco inizia con un aneddoto che riguarda il grande matematico Renato Caccioppoli, e che serve al saggista napoletano per ribadire una cosa troppo spesso dimenticata: “(…) gli acquiescenti e rassegnati napoletani diedero vita alle famose Quattro giornate. E in quella occasione, che molti continuano a non menzionare tra i primi episodi della Resistenza italiana, la rivolta del singolo divenne la disperata ed eroica rivolta di un’intera popolazione”. In questo caso l’orgoglio serve a smontare un luogo comune, ovvero la Resistenza antinazifascista come fenomeno esclusivamente nordico. Dopodiché Demarco smonta un’altra teoria, ovvero quella dei telai di Andrea Camilleri, che per spiegare l’emergenza rifiuti a Napoli, nel 2008 (su “L’Unità”), fa un volo pindarico e rievoca addirittura lo scippo tessile postunitario ai siciliani a beneficio del Nord. Pure, Demarco ammette un certo fascino per la solennità del Borbone, in specie quando ricorda la famosa mostra “Civiltà del Settecento” alla metà degli anni Settanta, inaugurata dall’indimenticato sindaco comunista di Napoli Maurizio Valenzi. Subito dopo, però, Demarco prende le distanze dalla retorica meridionale della rivoluzione mancata o tradita del 1799: “Inoltre, non sono mai stato un novantanovino, uno di quelli che, nonostante il clamoroso fallimento, ancora coltivano il mito della Repubblica napoletana del 1799; il mito di Eleonora Pimentel Fonseca e di Gennaro Serra di Cassano (…)”. Né con i giacobini, insomma, né con i borboni, sui quali, scrive Demarco, “credo mi stordisca tutto quell’eccesso di orgoglio che trasuda da ogni elencazione dei cosiddetti primati storici meridionali”.
Demarco vede e rivede assai criticamente le proprie posizioni e quelle degli altri meridionali a lui coevi. La confusione (la complessità) è il suo demone. Francesco Cossiga lo convince della bontà della democrazia repubblicana, nonostante i buchi neri delle stragi e dei misteri. Marcello Veneziani, invece, non lo convince: troppo estatico il suo nostos, il suo Eden premoderno. Il decano Giuseppe Galasso, poi, lo persuade che Roberto Maroni, benché leghista, sia un grande Ministro degli Interni (altro che tifoserie, il chiaroscuro è ovunque). Pino Aprile, invece, il nuovo Alianello (privo della scrittura di Alianello), è solo un epigono di Nicola Zitara e di Angelo Manna, predicatore televisivo napoletano (il suo programma si chiamava Tormentone) ed eletto parlamentare, nelle file del Msi, nel 1983. Pure, nessuno sconto viene fatto al leghismo nordico. Una battuta su tutte, folgorante: “A chi Salvemini, a chi Salvini”. Da incorniciare.
Poi, tutta una serie di “terronisti”, da Nord a Sud uniti nella deformazione della realtà: Gipo Farassino, Luca Zaia, Raffaele Lombardo, Lino Patruno (il giornalista, non il musicista), Marco Formentini, Antonio D’Amato, ecc.. Ma il terronismo ha le sue varianti interne, le sue degenerazioni in loco: i De Mita e i De Luca, per esempio, che più volte se la sono presa con i napoletani, definiti magliari e inaffidabili; Nichi Vendola, che in giunta regionale tuona contro l’ingordigia del “foggianesimo”. Tutti contro tutti, insomma, e magari ragionando per categorie generali, per luoghi comuni.
Marco Demarco affronta poi un altro tema a lui caro, ovvero l’utopia e la gabbia ideologica della “diversità” meridionale. Franco Cassano – via Leopardi – ha trovato una luce del Sud in contrapposizione al produttivismo e meccanicismo nordico; altri, come Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca, sono calati a Napoli e hanno letto solennemente la sentenza di condanna: i meridionali sono barbari, anzi, imbarbariti, perché i barbari portano con loro sempre qualche buona novità (altro che l’otium meridionale teorizzato da Gianfranco Miglio, il D’Annunzio della Lega). Siamo, com’è evidente, nei territori arbitrari delle “geografie immaginarie”, della non conoscenza (sarebbe bastato seguire dalla metà degli anni Novanta in poi il gruppo di storici di “Meridiana” per capire che non esiste il Mezzogiorno, ma tanti Mezzogiorni, tutti da studiare e valutare uno per uno, senza generalizzazioni o schematismi meccanici). Renato Brunetta dice che bisogna rifare una spedizione dei Mille per portare dal Nord gente illuminata al Sud? I napoletani gli rispondono con una T-shirt con sopra scritto: “Il vino buono sta nella botte piccola. Sì, ma no dint’o tappo”. A quest’altezza, com’evidente, siamo al coro, allo striscione di stadio, a una colpevole semplificazione che però “buca” il muro mediatico.
Intanto ognuno va a rileggersi pro domo sua vecchie ingiurie del passato, come quella del Guiscardo, che mille anni fa scrisse che i meridionali erano “Homines caccarelli et merdacoli parvique valoris”. I neoborbonici rispondono con il mito della ferrovia Napoli-Portici. Un Paradiso abitato da diavoli? Non proprio. Semmai una terra normale, con vizi e virtù, ma che antropologi, medici, climatologi, razzisti, psichiatri e pensatori di mezzo mondo hanno usato come territorio per dimostrare inferiorità razziali e intellettive (Niceforo, Richard Lynn, ma Demarco riesce a portare sul banco degli imputati, con tanto di dimostrazioni documentali, e con notevole acume antropologico e scientifico, anche Giacomo Leopardi e Giustino Fortunato, entrambi abbagliati dalla maledizione della “razza” e dal “clima”).
Per non parlare del brigantaggio, che Demarco giustamente inquadra nella sua reale portata storica, ché di briganti era infestata l’intera Europa sin dal ‘500. Demarco li demitizza, e toglie loro quella patente rivoluzionaria che troppi neoborbonici hanno loro affibbiato (senza tenere conto delle loro ambiguità, della loro ferocia, della loro viltà).
Insomma, ce n’è abbastanza per aprire una discussione che superi l’impasse del dualismo Nord/Sud, Risorgimento/Borboni, Cultura/Natura. Ma c’è davvero spazio per la complessità? Ed è possibile una terza via critica e non ideologica che tenti di smantellare pregiudizi, luoghi comuni, ignoranze, demagogie, contrapposizioni finte e pretestuose che fanno male a tutti, anzitutto all’Italia?
Andrea Di Consoli
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