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Credo non si potesse dir meglio sulla controversa natura del nostro sentimento civile e sul diverso modo di declinarlo dall’interno degli universi locali e regionali, luoghi identitari ma anche finestre spalancate sul corso della storia nazionale.
Vi sono riusciti sia Folino, Presidente del Consiglio regionale, sia De Filippo, Governatore in carica. Naturalmente secondando le loro non banali fisionomie, le loro diverse letture, la loro irriducibile educazione sentimentale. Il primo evocando suggestivamente le radici sanguigne, popolari, in un certo senso eretiche che animarono la irruzione dei lucani nel teatro della “modernità”, ne ispirarono sommosse e cospirazioni massoniche e carbonare e le connotarono nel segno di una libertà eversiva verso gli ordinamenti feudali e borbonici. Il secondo seguendo le piste di una storiografia più elaborata, segnata intellettualmente da una soggettività elitaria di convinzioni liberali, pur se accompagnata da un clima di empatia popolare. Due letture che rilevano da alvei culturalmente diversi, ma che approdano coerentemente in quel “filone risorgimentale lucano”, così come, orgogliosamente, lo si è voluto definire per segnalare lo stigma unitario di una regione per tanti versi considerata ancora incompiuta.
Spieghiamo meglio. La definizione di “Risorgimento lucano” ha significato collegare un’identità storica, sociale, quale la nostra, apparentemente appartata e subalterna, al grande moto nazionale, alimentato per larga parte da correnti radicali e liberali e sostanzialmente guidata da una borghesia intellettualmente e politicamente emancipata dalle circoscrizioni native e portate a frequentare cenacoli e vivere di pubbliche, elevatissime responsabilità nazionali. Non può parlarsi, quindi di una “insularità” lucana nella vicenda unitaria, ma di una sua piena partecipazione alla costruzione di un ethos civile della nazione. Ciò che le consente oggi (e consente alla sua attuale classe dirigente) di tenersi fuori dalla partita storico-saggistica e antropologica fra terronia e padania, fra Aprile e Del Boca e di rivendicare una sua autonoma capacità di interlocuzione non priva di qualità e di legittimità nel dibattito sul federalismo, sull’unità civile del Paese, sullo stato del divario “in questo punto della storia e della geografia dell’Italia” e sulle strategie per farvi fronte con mezzi e alleanze appropriati.
Perciò il messaggio che viene dalla riflessione lucana è di assoluta attualità. I lucani hanno certo da guadagnare da un legame nazionale convalidato da serie argomentazioni storico-politiche a patto che lo vivano con realismo, facendo valere il loro “carattere sobrio e antieroico” poiché non rivendicano virtù autarchiche, aristocratismi e stemmi nobiliari, ma sanno di poter contare su un deposito di valori che in un eventuale “viaggio all’indietro” è sempre possibile ritrovare.
Se Folino al Risorgimento sentimentalmente si collega evocando il nerbo popolare della gioventù lucana che sfila a Napoli fra gli applausi come dal colorito racconto di Riviello e De Filippo al Risorgimento perviene per i tornanti della militanza intellettuale della più evoluta borghesia lucana, il risultato non cambia. Come non cambia il codice della comunicazione affidato a questa celebrazione del 150° dell’Unità: la Basilicata è il tassello civile di una costruzione nazionale che è destinata a durare oltre gli egoismi e le angustie di una stagione difficile ma non disperata. Non disperdiamo perciò il valore di una solidarietà di fondo che, senza nulla togliere alle diversità politiche, rappresenti una forza e una risorsa per doppiare la crisi e costruire il futuro.

Vincenzo Viti

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