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di DOMENICO LOGOZZO
Settantacinque anni dopo la fine del confino a Brancaleone, inqualificabili personaggi si sono resi responsabili di un odioso oltraggio alla memoria di Cesare Pavese. Domenica il Quotidiano in prima pagina ha pubblicato la notizia di uno spavaldo raid vandalico nel centro del paese, durante il quale è stato anche sradicato il busto in bronzo dello scrittore. Dalla piazza principale del è stato “trasferito” sull’albero maestro di una barca. Un atto vergognoso. Da punire esemplarmente. Rispettare il passato. Ricordare. E’ un dovere di tutti. Non sono tollerabili sottovalutazioni. Le “bravate” non sono mai giustificabili. Peggio ancora quando vengono compiute ai danni di chi ha lasciato in eredità all’Italia un tesoro culturale, politico e sociale di inestimabile valore. E le persone illuminate di Brancaleone, sono giustamente indignate. Anche perché, come dicevamo, il fattaccio, sia pure casualmente, coincide con una data importante: il 17 marzo del 1936, dopo quasi sette mesi, si concludeva l’esilio in Calabria imposto dal regime fascista a Cesare Pavese. Nel paese della costa jonica reggina era arrivato il 4 agosto 1935. Con la gente di Brancaleone, aveva avuto un ottimo rapporto. Indissolubile. Dopo la tragica morte, tante le iniziative culturali nel comune calabrese che intitolava a Pavese la biblioteca , il lungomare e la piazza principale con il busto in bronzo che l’altra notte è stato sradicato e messo su una barca. E’ stata così meschinamente oltraggiata la memoria di un grande scrittore, sono stati umiliati i limpidi sentimenti di coloro i quali, per onorare l’illustre confinato politico, avevano fatto realizzare l’opera. Brancaleone e Pavese. Tanto rispetto. Sempre. Buoni ricordi della generosa e umile gente calabra. Sentimenti di gratitudine da parte dello scrittore piemontese. “La gente di questi paesi-scriveva alla sorella Maria il 27 dicembre 1935- è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono “Este u’ confinatu”, lo fanno con una tale cadenza ellenica che io mi immagino di essere Ibico e sono bell’e contento. I colori della campagna sono greci. Rocce gialle o rosse, verdecchiano di fichindiani e agavi, rosa di leandri e gerani, a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata, e colline spelacchiate brunoliva”. L’ignobile atto di ignoranza non può intaccare o sporcare impunemente una pagina di storia della Calabria dell’accoglienza. Pavese aveva espresso giudizi positivi, più volte ed in epoche diverse, sulla sua permanenza in terra di Calabria. Mesi indimenticabili. Personaggi che diventeranno poi protagonisti delle sue opere. Conoscere per capire .E crescere. Tanti studiosi nel corso degli anni si sono occupati del confino di Pavese a Brancaleone. E sono venuti fuori importanti elementi di valutazione e di attenzione. Bona Alterocca sulla ”Stampa” del 18 aprile 1976, scriveva: «Aveva affittato una camera, vicino a una osteria dove passava molte ore, stando in disparte ad osservare chi entrava e chi usciva. Un giovane del luogo poco maggiore d’età (Pavese aveva 28 anni), certo Oreste Politi, un giorno gli si avvicinò con simpatia e gli offrì alcuni prodotti della terra, primizie dovute all’ospite gradito. Nacque così un’amicizia. Oreste era un piccolo possidente terriero, con molto tempo disponibile, e conosceva tutti. La sua cordialità verso il confinato politico piemontese, una certa affinità di idee nel senso che entrambi non amavano il fascismo, ma soprattutto i suoi racconti ricchi di fatti e personaggi non potevano fare a meno di interessare e attrarre Pavese, che trascurò la compagnia di persone più colte e preferì Oreste Politi. Più tardi il giovane calabrese si trasferì per qualche anno a Torino, dove prese moglie, ma poi tornò a Brancaleone». Un rapporto di amicizia molto stretto, tanto che “la sua figura ispirò il sanguigno Giannino Catalano in “Prima che il gallo canti”. E ancora Bona Alterocca: “I rapporti amichevoli dei due si rafforzarono, come testimoniano alcune lettere di Cesare a Oreste. In una dell’8 gennaio 1950 scriveva: «Di ritorno da una scappata di Capodanno ho trovato la tua cassetta che mi ha ricordato giorni e sapori di Brancaleone. Anche i miei ne sono stati, felicissimi. Come ringraziarti? ». Precisa poi la studiosa: “La cassetta conteneva arance ed altre primizie. E’ chiaro che la memoria del paesino calabro, cessate le condizioni per cui era stato obbligato a risiedervi temporaneamente, aveva mutato prospettiva ma era tutt’altro che svanita”. Non era facile dimenticare la bontà della gente di Brancaleone .I luoghi, i colori, i sapori. La Calabria dei sentimenti. Che niente e nessuno potrà cancellare mai. Né la distanza, né gli anni riescono a far sbiadire i buoni ricordi. E la conferma dell’attaccamento di Pavese al paese che l’aveva ospitato, viene da un’altra lettera ad Oreste Politi: «Come vanno le cose a Brancaleone? Io continuo a dover rimandare la gita che da dieci anni voglio fare laggiù. Sembra quasi che come nel ’36 ero confinato là, adesso sia confinato qui».
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