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di ENNIO STAMILE
Quella che si sta vivendo in Nord Africa ed in Medio Oriente, è senza alcun dubbio una pagina importante della storia. Anche se qualche studioso propone un paragone, a mio avviso piuttosto azzardato, con ciò che accadeva in Europa nel 1848, credo che mai a memoria d’uomo tanti cittadini di diversi stati, contemporaneamente o quasi, stanno lottando contro sistemi dittatoriali che hanno posto in essere corruzione, mancanza di libertà di pensiero e religiosa, sfruttamento, torture, provocando tra l’altro un grande flusso di profughi e di rifugiati costretti dai vari regimi a lasciare la propria terra. Francamente, ciò che più sconcerta, è il fatto che tutto questo è accaduto tra l’indifferenza, o quasi, dell’Europa e del mondo perché l’interesse era rivolto più all’economia che alla democrazia. Ora, il vento della democrazia soffia inesorabile spazzando via quelle nefandezze, lasciando sulle strade e sulle piazze tracce indelebili di quel sangue innocente, prezzo imposto dai regimi totalitari di ogni epoca. Chi si era illuso che gli scambi economici e delle merci potessero attraversare le frontiere, ma non altrettanto le idee e gli stili di vita si è dovuto ricredere. Per anni anche a causa della teocrazia iraniana, abbiamo creduto e temuto una sorta di scontro di civiltà. I fatti di questi giorni ci stanno mettendo dinnanzi alla drammatica realtà di persone che lottano perché semplicemente vogliono avere un lavoro dignitoso ed uno stipendio altrettanto dignitoso, formare una famiglia crescere i figli in pace ed assicurare loro un futuro. È un’elementare questione di buon governo che l’analfabetismo di pochi dittatori ha sempre ignorato. Come si spiega altrimenti che l’Iran, che è tra i Paesi più ricchi di petrolio al mondo, conta il 15% di disoccupati e il 20% della popolazione sotto la linea della povertà? Probabilmente perché il regime per potersi reggere deve foraggiare a forza di sussidi «una pletora di parassiti di Stato e miliziani di regime». Credo che l’aspetto più paradossale è l’atteggiamento dell’Europa di fronte al genocidio che sta accadendo in questo ore in Libia sotto i nostri occhi. La linea scelta da parte dei ministri degli esteri, dopo aver pronunciato le solite condanne formali, è quella della prudenza, per rimanere inchiodati al muro dell’inerzia sotto la minaccia da parte di Gheddafi di dare via libera a nuovi flussi migratori verso le coste italiane. Addirittura il ministro della Repubblica Ceca Karel Schvarzenberg, ha affermato che la caduta di Gheddafi «sarebbe una catastrofe». Non sono una catastrofe, invece, quelle sventagliate di mitra e quelle bombe lasciate cadere sulla folla inerme. Uno dei figli del rais, Saif Gheddafi, pare stia recitando il ruolo di portavoce del governo, a tal punto che afferma: «la Libia è a un bivio. Se non arriviamo ad un accordo sulle riforme, non ci saranno solo 84 morti da piangere, ma in Libia scorreranno fiumi di sangue». Le sue terribili parole non si fermano a questo. Nel tentativo di calmare i rivoltosi, probabilmente, lo stesso Saif annuncia che si procederà ad una riforma del codice penale, all’interno del Parlamento libico, il Congresso generale del popolo. Non so voi, ma personalmente non posso fare a meno di pensare quando appena pochi mesi fa il colonnello Gheddafi veniva ricevuto nel nostro Paese con tutti gli onori riservati ad un capo di Stato. Inoltre, gli si concedeva anche il lusso di poter insegnare il Corano a qualche centinaio di hostess ben pagate per recitare la parte delle brave allieve. Mi sono chiesto anche cosa pensa Rea, quell’unica hostess «convertita» che aveva definito il colonnello «un uomo ed intelligente». Anche le famiglie che regnano – con poca parsimonia e molta incapacità – in Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, dovranno fare i conti con le sempre crescenti aspirazioni dei popoli, ormai votati alla democrazia ed alla giustizia sociale. Si illude chi ancora continua a credere che il progresso possa essere arrestato dalla repressione. La storia ci ha insegnato che i regimi totalitari hanno bisogno di soldati, che vengono appunto «assoldati» per uccidere i nemici interni ed esterni e mantenere così lo status quo. L’esercito egiziano e quei due ufficiali dell’aeronautica della libica atterrati a Malta perché si sono rifiutati di sparare sulla folla – per cortesia non chiamiamoli disertori – ci offrono segnali concreti di poter sperare (nonostante le crudeltà e l’infamia di molti soldati libici) ad un esercito teso a costruire e mantenere la pace e non la guerra fratricida.
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