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di EMILIO SIRIANNI GENTILE
direttore, ho necessità d’abusare ancora degli spazi del suo giornale per alcune parole che mi preme dire sulla lettera aperta che il prof. Piperno e altri hanno inviato ai Presidenti Lula e Napolitano e che il suo giornale ha pubblicato ieri, pur dovendo premettere quanto sia poco agevole districarsi nella fitta trama di inesattezze, approssimazioni e omissioni con la quale quell’appello è intessuto. La prima cosa da dire è che l’espressione “responsabilità morale” è null’altro che un’espressione suggestiva, forse proprio per questo adoperata. Il nostro sistema penale conosce solo, oggi come all’epoca dei delitti per cui Batisti è stato condannato, il concorso nel reato e in questo l’Italia non si differenzia dalla totalità degli stati democratici del mondo. Concorrere nel reato vuol dire banalmente che un reato è commesso da più persone insieme. Può essere concorso materiale, quando il fatto materiale è il risultato dell’azione di più persone insieme, come nel classico esempio della rapina compiuta da più rapinatori. Può essere concorso “morale” se a taluno si addebita solo di avere partecipato all’ideazione e progettazione del reato: è il classico esempio di un mandante di un omicidio. Questa forma di partecipazione al reato è punita -ne sono quasi certo- in ogni angolo del mondo. Sicuramente in tutti gli stati che sono retti da istituzioni democratiche. Mi sento di rassicurare i firmatari: ovunque, il mandante di un omicidio sarà sottoposto a processo penale. Anche se al momento della commissione del fatto se ne stava in pantofole a casa sua o a teatro (magari per precostituirsi un alibi). Cesare Battisti è stato condannato per molti gravi reati. A parte per la detenzione di numerose armi da guerra (mitra Kalashnikov) che si trovavano nel covo in cui fu arrestato nel giugno del 1979, per ben quattro omicidi: “in due di essi, omicidi del maresciallo Santoro (Udine 6.6.1978) e del poliziotto A. Campagna (Milano 19.4.1979), egli sparò materialmente alle vittime; in un terzo (L. Sabbadin, macellaio, ucciso a Mestre il 16.2.1979) svolse il ruolo di “palo” in aiuto dei killer; per il quarto (P. Torregiani, Milano 16.2.1979) partecipò alla decisione e organizzazione del fatto” (A. Spataro, su “Il Fatto” del 2.1.2011). Pertanto, spazzati gli equivoci sull’evocata “responsabilità morale”, solo per quest’ultimo delitto egli ha concorso nella sola fase dell’ideazione. Negli altri tre casi e lì a uccidere o a supportare chi uccideva. È importante notare che gli omicidi Sabbadin e Torregiani (il primo macellaio e il secondo gioielliere) furono decisi e attuati dai Pac (Proletari Armati per il Comunismo), cui Battisti apparteneva perché i due dovevano essere puniti della reazione avuta in occasione di altrettante rapine subite tempo prima. Entrambi avevano sparato contro i rapinatori (rapinatori comuni, si badi bene) e, pertanto, secondo gli assassini delle Pac -che gli autori della lettera collocano nella “migliore parte del paese”- dovevano essere puniti perché i rapinatori contro cui reagirono erano dei proletari e loro non potevano arrogarsi il diritto di difendersi (dal volantino poi distribuito dai terroristi). Quanto poi al parallelo “responsabilità morale” (rectius concorso morale)-concorso esterno nell’associazione mafiosa (e non “associazione esterna”, altra espressione senza senso), quest’ultima è una figura giuridica tratta dal “combinato disposto” degli artt. 110 e 416 bis del codice penale. Nessuna invenzione dei giudici, dunque, ma una figura di reato, peraltro di intuibile comprensione: vuole dire avere agevolato l’attività criminosa di un’associazione mafiosa, pur senza farne parte organicamente. È come – facciamo un esempio di fantasia – il caso di un governatore regionale che, pur non essendo mai stato “battezzato” dai vertici del gruppo mafioso, curi di informarli sollecitamente di quanto appreso da un suo amico maresciallo sulle indagini condotte nei loro confronti. Certo, so bene che ai molti “garantisti a sproposito” (sul senso del termine “garantismo” mi è capitato di annoiarla solo pochi giorni addietro) il reato di associazione mafiosa -fortemente voluto da Falcone e per la cui approvazione in Parlamento Pio La Torre dovette dare la vita, continua a suonar male, ma le centinaia di vittime (loro sì oppressi e privati della dignità di uomini) delle mafie a quelle norme tengono molto. Passando ad altro, non corrisponde in alcun modo al vero che il governo brasiliano abbia negato l’estradizione di Battisti perché i processi cui egli fu sottoposto avessero “gravemente risentito delle procedure emergenziali adottate dallo Stato italiano per far fronte a una rivolta sociale senza precedenti nella storia del paese”. Lo ha fatto in base all’art. 3, lett. f della convenzione firmata con l’Italia il 17 ottobre 2009. Tale disposizione prevede la possibilità di negare l’estradizione se ci sia motivo di temere che la persona estradanda possa essere “sottoposta ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali”. Questa è la sola ragione e ciascun lettore può formarsi da solo il convincimento circa l’esistenza di un tale pericolo. Certo non ne ha ritenuta l’esistenza la Corte Suprema brasiliana che, a novembre del 2009, votava a favore della estradizione di Battisti in Italia. Tale decisione è stata poi posta nel nulla dal Presidente Lula, esercitando una facoltà concessagli dalla Costituzione di quel paese. È un ruolo di ultima istanza che diverse Costituzioni riconoscono ai Presidenti della Repubblica, accade anche da noi con il potere di grazia presidenziale, ma rimane il fatto che il supremo organo giurisdizionale brasiliano ha ritenuto che non vi fossero ragioni per negare l’estradizione. Aggiungo che quella che probabilmente è oggi la più autorevole e rispettata istituzione di garanzia dei diritti umani, La Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo, ha rigettato nel 2006 il ricorso contro la concessione dell’estradizione proposto da Battisti nel 2005, giudicandolo “manifestamente infondato”. Quindi, nessuno, in nessuna istituzione nazionale o internazionale, ha mai riconosciuto che vi fossero state violazioni di diritti e garanzie nei processi condotti contro Battisti. Del resto, gli illustri firmatari della lettera non ne indicano una che sia una. Di più, incappano proprio in uno di quei “teoremi” che tanto avversano: poiché in quegli anni vi fu “insurrezione” e repressione, è da concludere che quei processi siano stati ingiusti. Non mi pare un grande esempio di trasparenza intellettuale. Altro argomento è che in altre vicende altri Stati avrebbero negato estradizioni chieste dall’Italia, ma nemmeno questo mi pare un granché. Ad argomentare così, non ci sarebbe Stato che si salverebbe da censure analoghe a quelle dai firmatari mosse al nostro, posto che non c’è Stato che non si sia visto negare richieste di estradizione. Neanche la “solita Francia”. A quest’ultimo proposito, è da citare quanto scritto il 15 gennaio scorso su “Le Monde” da Antonio Tabucchi, uno dei nostri migliori scrittori, che in Francia ci vive e che non può certo essere sospettato di pulsioni repressive o simpatie inquisitorie, in un durissimo articolo contro gli estimatori d’oltralpe del nostro. Scrive Tabucchi: “i processi in contumacia a Battisti si sono svolti con le massime garanzie, perché l’Istituto giudiziario italiano, a differenza di quello francese, prevede che il fuggiasco sia comunque assistito da avvocati, beneficio di cui Battisti ha ampiamente goduto. Sottolineo che nel caso di terrorismo contro lo Stato, in Italia il reo è giudicato da un tribunale ordinario che emette una sentenza con motivazioni. In Francia, al contrario, in casi come questi opera un tribunale speciale, al chiuso, ed emette sentenze senza motivazioni (è una delle ragioni per cui la Francia ha più volte subito censure da parte della Commissione europea dei diritti umani)”. E ancora: “in Francia esiste ancora una legge arcaica, censurata per l’ennesima volta dalla Commissione europea dei diritti umani, come la Garde à vue (oltre 24 ore di detenzione in celle del commissariato senza diritto a un avvocato e con visita corporale a discrezione dei poliziotti)”. È poi davvero sorprendente quanto scritto nella lettera sulla funzione della pena nella nostra Costituzione. Ritengono gli autori che, poiché, secondo l’art. 27 della Carta, le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”, allora Battisti non dovrebbe essere incarcerato, in quanto, avendo trascorso ben trenta anni in quel di Parigi, scrivendo libri di successo fra i suoi molti estimatori allora avrebbe già “espiato”. Osservo solo quanto suoni irridente un’argomentazione del genere nei confronti di chi, come Adriano Sofri, ha dato dignità alla propria professione di innocenza, proprio rifiutandosi di fuggire. Chi infrange la legge deve essere punito, chi uccide deve essere punito. È compito di tutti battersi perché le pene non siano inumane e perché tendano al reinserimento dei rei, ma prima occorre che siano comminate. Quanto all’elogio dell’“inebriante passione civile” dei supposti insorgenti, per me erano e rimangono terroristi. I giudici Galli e Allessandrini furono giustiziati mentre, soli e senza scorta, si recavano uno al lavoro e l’altro a fare lezione all’università. Lasciarono mogli e figli e avevano la colpa di rappresentare quella parte di magistratura che, per rispetto delle garanzie, professionalità e cultura, dava “credibilità” allo Stato. Il figlio di Torreggiani assistette all’omicidio a sangue freddo del padre e fu colpito anch’egli rimanendone paralizzato a vita. Centinaia di poliziotti, professori, giornalisti, magistrati, sindacalisti e molte altre persone comuni pagarono con la vita e mutilazioni permanenti l’“inebriante” follia di chi si autoproclamò maieuta di una nuova storia e si erse ad accusatore, giuria e boia. Io, allora come oggi, guardo con orrore a questa follia e sto dalla parte degli inermi.
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