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DA DOVE iniziare un discorso critico intorno al nuovo romanzo di Giuseppe Lupo (Atella, 1963), intitolato “L’ultima sposa di Palmira” (Marsilio, 171 pagine, 18 euro)? Si potrebbe iniziare, per esempio, scomponendo lo stesso titolo, e isolare i termini “ultima”, “sposa” e “Palmira”. La parola “ultima” ci suggerisce la visione terminale e postuma che Lupo ha della millenaria civiltà (non solo lucana ma, direi, mediterranea) della coralità e del racconto; la parola “sposa” suggerisce senza mezzi termini, così legata alla parola “ultima”, una catena della fertilità che si spezza, un racconto e una tradizione che volge al termine, e che più non continua, essendo nel suo atto finale; la parola “Palmira”, invece, ci catapulta in arie e reminiscenze (inconsce) mediorientali, in una nostalgia di fantasmi e di paesi perduti, infestati di leggende e di dolore. Il nuovo romanzo di Lupo è binario, ovvero un alternarsi di diastole e sistole: da un lato è il racconto in prima persona di un’antropologa milanese di origini irpine che scende nel “cratere” (tra Basilicata e Irpinia) nei tristi giorni del terremoto del 1980; dall’altro è la storia fantastica e struggente di un paese che nessuna mappa ha mai segnalato (Palmira, appunto), sin dalla sua fondazione (biblica, da “Antico Testamento”) per mano di un Patriarca Maggiore, padre di quaranta figli. L’antropologa milanese si trova a suo agio – via De Martino – con i lamenti funebri che si perdono, e va dove la rovina più s’abbatte su antiche civiltà morenti; Vito Gerusalemme, invece, il falegname che le racconta la storia di Palmira nel mentre continua a disegnare scene della sua storia sul mobilio che spetta alla promessa sposa Rosa Consilio (l’ultima sposa di Palmira), ha ancora speranza, nonostante a causa del terremoto tutti stiano andando via dal suo fantasmatico villaggio, che la storia del suo paese possa continuare a srotolarsi coi suoi accadimenti e con le sue tante mirabilie. Sono due superstiti, l’antropologa e il falegname, due commercianti di ombre e di fantasmi, due utopisti del racconto, due segnatori sconfitti dalla modernità frantumatrice. Si potrebbe iniziare un discorso antropologico e sociale su “L’ultima sposa di Palmira” sottolineando, ancora una volta, il fertile topos lucano del terremoto del 1980 come frattura epocale, come pietra di confine tra un “prima” e un “dopo” dei costumi e della cultura. Ma sarebbe riduttivo, ché non sfugge a un’attenta lettura del romanzo il riferimento a una tradizione ancor più antica e ancor più grande (non a caso il cognome di Vito è Gerusalemme, non a caso il paese si chiama Palmira, come quello siriano, e non a caso molti personaggi dell’antica Palmira di Lupo hanno solennità e complessità da patriarchi ebrei). Diciamo pure – per citare il Pedullà che recensiva il Vito Riviello de “L’astuzia della realtà” – che Lupo ha finalmente allargato, con “L’ultima sposa di Palmira”, la questione meridionale in questione mediterranea. Tutto, comunque, è possibile, nei romanzi di Lupo. Una fantasia abnorme da “mille e una notte” stravolge ogni dato possibile della realtà. E ci prova sempre, lo scrittore atellano, a nominare le cose della realtà, ma poi scappa, fugge nei suoi sogni antichi, e in lui parla con gioia, sicurezza e malinconia un inconscio collettivo sommerso, coma in una trance junghiana. Diciamo pure che la struttura psichica (e quindi narrativa) di Lupo è premoderna, essendo per lui il moderno soltanto un elemento perturbante che getta il passato in una luce ancor più magica, sia pure morente, nell’atto di svanire. E’ un’utopia, la sua, di tipo narrativo – non già morale –: l’utopia, appunto, dell’antica civiltà mediorientale, che è giunta in Lucania nei secoli passati per strade evidenti e nascoste che non abbiamo ancora imparato a indagare fino in fondo, e che ci restano oscure. Compito dello scrittore è quello di essere voce di voci perdute, megafono di parole cancellate, solitaria (e in questo moderna) civiltà di collettive civiltà perdute, e non già, come pure Lupo si è illuso di fare (storicizzando e, in qualche misura, politicizzando la sua funzione letteraria, come per esempio ne “La carovana Zanardelli”) quello di portare la Storia con la esse maiuscola nelle terre sperdute, o le piccole storie perdute nella grande Storia che conta. In questo senso Giuseppe Lupo è fino in fondo narratore di poesia, ma d’una poesia pregna non già di astrazioni metafisiche, ma di storie, di corpi, di sentimenti, di favole e fiabe tramandate come in sogno. Si sente ovviamente il magistero di Raffaele Nigro (quello di “Dio di Levante”, ma anche, per la malinconica parte “moderna”, di “Ombre sull’Ofanto”), quel voltare le spalle alla Lucania moderna per dare voce ai fantasmi, ai tanti morti che chiedono di tornare in vita, e che sono più vivi dei vivi. Perciò un romanzo come “L’ultima sposa di Palmira” ci conferma ancora una volta che un romanziere, uno scrittore, un poeta, non è figura tra le tante, cronisti tra i tanti, ma che qualcosa di sacro è in lui (si ricordi sempre il cruciale discorso di Moravia a Campo Marzio all’indomani dell’assassinio di Pasolini), ché il passato svanito parla per mezzo della sua fantasia e della sua immaginazione. Giuseppe Lupo è agito da questi fantasmi – come Nigro, del resto – e ci conferma che la parte migliore della nostra letteratura lucana è letteratura di fantasmi e di follie, di utopie e di sogni, di deliri e d’infelicità, e che sempre è perduta e nascosta nella parte in ombra della storia e dell’immaginazione, in un dormiveglia che potremmo definire “onirismo narrativo”. Inutile dire che personalmente penso che la vera “ultima sposa di Palmira” sia la stessa antropologa, ovvero tutti quelli che per mezzo della cultura e dell’immaginazione (antropologia e visionarietà sono i due termini entro i quali si compie la narrativa di Lupo) portano avanti questo misterioso fuoco poetico che è la ricerca dei mondi e delle parole perdute.

Andrea DI Consoli

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