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di DOMENICO CERSOSIMO
In nove mesi nasce un bambino. Dunque, non sono pochi, anche per sottoporre a bilancio critico un’esperienza di governo. Scopelliti e la sua giunta si sono insediati nei primi giorni di aprile del 2010 sotto la spinta di una vittoria elettorale netta e schiacciante. Troppi voti rischiano di far male alla ragionevolezza e al senso della misura dei vincitori. E’ successo nel 2005 a Loiero e ai suoi alleati di centrosinistra che, ubriacati da un’altrettanta vittoria schiacciante sul centrodestra, si lasciarono andare a proclami fuori misura del tipo “rivolteremo la Calabria come un calzino”, oppure “nulla sarà più come prima”. Naturalmente, nel quinquennio loieriano la Calabria non è stata né rivoltata (né poteva esserlo!) né si è realizzata la palingenesi (che non arriva per semplice annuncio!). Le trasformazioni “epocali”, come è noto, non si realizzano con i proclami: necessitano, oltre che di congiunture socio-istituzionali particolari, soprattutto, di convenienze diffuse al cambiamento e di classi dirigenti adeguate! Scopelliti e i leader della sua coalizione hanno subito, come i predecessori, il fascino della tabula rasa e della nuova era che avrebbe atteso i calabresi a partire dal successo elettorale di primavera della destra. Il loro artificio retorico base è semplice e accattivante: “prima di noi il vecchio Medioevo/con noi il nuovo Risorgimento”; “Loiero emblema del peggio/Scopelliti ariete del meglio”. Un messaggio duale di grande presa, banale ma comprensibile ai più, rozzo ma comunicativamente efficace. Da qui l’intenzionale enfasi smisurata sui disastri del passato, sulle nefandezze di governo della precedente amministrazione e, allo stesso tempo, l’esaltazione fideistica delle capacità rifondanti del nuovo “governatore”. Per non essere da meno dei loro predecessori, i “nuovi” amministratori regionali e i loro amici di avventura non esitano a parlare di “rivoluzione culturale”, di “aria nuova” e di “nuova classe dirigente” che ormai connoterebbero le vicende regionali recenti. Un ritornello ossessivo che, ancora oggi, dopo nove mesi dall’insediamento della nuova giunta regionale, i calabresi debbono assumere in porzioni bi-quotidiane nel tiggi pubblico locale. Il grado di corrispondenza tra la reclame e il prodotto non sembra interessare i redattori televisivi e forse neanche i cittadini: illudersi che la nave sia “nuova” di zecca e che il comandante sia giovane, fresco e fattivo può servire a smarcarsi dalle angustie minute della vita corrente e a percepirsi “migliori” da come si è fatti. Scopelliti e i suoi cantori sono sulla frontiera della post-modernità berlusconiana. Sono completamente immersi nell’era della mediatizzazione e della iper-personalizzazione della politica e delle istituzioni: non conta ciò che fai ma ciò che racconti/annunci/comunichi sui media; non contano i partiti, i “corpi politici collettivi”, bensì il leader, il “corpo politico personale”, come spiega Mauro Calise ne “Il partito personale” (Laterza 2010). Non si comunicano fatti bensì format. Non conta la cruda realtà bensì la sua rappresentazione o, per i palati più fini, la sua narrazione. La finzione tende così a superare la realtà, a sostituirla, a manipolarla e riscriverla, secondo i canoni tipici della sindrome che Maurizio Ferrara ha definito di “realitysmo”: la realtà che svapora in una favola eteroimposta. A furia di dire che Scopelliti è il “nuovo” della politica regionale si finisce col convincersene. Non importa se il “giovane governatore” è in politica da sempre e che abbia ricoperto – udite, udite! – i ruoli di presidente del consiglio regionale e – udite, udite! – di assessore nella giunta Chiaravalloti. Così come la demonizzazione sistematica del quinquennio loierano finisce per convincerci che tutto il negativo viene da quegli anni. Niente importa se gran parte dei provvedimenti di governo fatti in questo primo scorcio di legislatura regionale siano in stretta continuità con il passato e che molti dirigenti con accento catanzarese siano stati semplicemente rimpiazzati con altri con accento reggino. Berlusconi e, in scala ridotta, i cultori locali delle fiction dimenticano l’inemendabilità della realtà e che, prima o poi, i fatti e i soggetti veri finiranno per imporsi alle favole. Più semplicemente, i leader del centrodestra trascurano che le istituzioni sono fatte per durare a lungo, oltre i cicli politici dei singoli e che l’accanimento al discredito implica inevitabilmente ulteriore sfiducia nei confronti delle istituzioni regionali, che è già ben al di sotto del livello di guardia. Per di più, come un classico effetto inatteso, istituzioni senza reputazione rischiano di screditare anche chi temporaneamente le rappresenta. Per questo servirebbero sentimenti e azioni al rialzo, soprattutto da parte di chi ha il privilegio e la responsabilità del consenso elettorale e della rappresentanza istituzionale. Oggi e in futuro.
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