6 minuti per la lettura
di ALFONSO PASCALE
Caro Direttore,anche in Basilicata incomincia a svilupparsi l’agricoltura che accoglie persone svantaggiate e mette a disposizione risorse e processi produttivi per realizzare percorsi verso l’autonomia. Esperienze concrete si sono avviate a Brienza con la fattoria sociale “La Burgentina”, a Montalbano Jonico con la fattoria sociale “La Contrada di S. Nicola” e a Irsina con la cooperativa “Frate Sole”. La campagna lucana è particolarmente vocata all’agricoltura sociale perché il processo di ammodernamento dell’agricoltura qui è avvenuto in modo meno dirompente che altrove. Non vi è stato un eccessivo impoverimento di capitale sociale e di beni relazionali. Specie nelle aree più interne, le strutture agricole non si sono omologate ai processi industriali e presentano caratteri che solitamente si ritengono peculiari della marginalità delle campagne: scarsa specializzazione, una maglia poderale frammentata, meno agricoltura professionale e più part time e agricoltura amatoriale.
Noi dovremmo approfondire la storia non solo economica ma anche sociale di questa marginalità agricola e le ragioni non solo geofisiche e pedoclimatiche, ma soprattutto culturali e direi antropologiche che hanno impedito una modernizzazione delle campagne distruttiva dei beni pubblici relazionali e paesaggistici e che, nello stesso tempo, sono all’origine della marginalità. E potremmo in tal modo cogliere la presenza di certi fattori che possono mettere in moto meccanismi in positivo per trasformare la marginalità in risorsa, in identità riconosciuta e riconquistata.
L’opera che stiamo compiendo con il recupero di prodotti tipici e tradizionali della Basilicata, facendoli diventare eccellenze alimentari, andrebbe effettuata per altri aspetti della nostra agricoltura, andando a scandagliare il patrimonio storico di valori e pratiche solidali della regione.
Nel mondo contadino lucano erano diffuse pratiche di mutuo aiuto come i riti di ospitalità nei confronti soprattutto dei più indigenti; il vegliare nelle serate invernali per educarsi alla socialità e permettere agli anziani di trasmettere ai giovani la memoria e i valori essenziali per dare un senso alla vita; lo scambio di mano d’opera tra le famiglie nei momenti di punta dei lavori aziendali; i sistemi di regolazione del possesso aventi un’implicita tendenza verso la distribuzione egualitaria delle risorse, a partire dagli usi civici delle popolazioni locali sui terreni di proprietà collettiva. La reputazione delle diverse comunità rurali si è alimentata della capacità di dare valore e dignità alle persone portatrici di singolari particolarità e costituiva senso comune l’idea che ogni individuo dovesse avere accesso ad una quantità di risorse sufficiente a metterlo in grado di assolvere i suoi obblighi verso la comunità nella lotta per la sopravvivenza. Gli enti che gestivano le terre collettive, su cui si esercitavano gli usi civici, originariamente svolgevano anche funzioni pubbliche, come pagare il medico, la levatrice, curare la manutenzione delle strade e delle fontane. E, in tale quadro, svolgevano una funzione peculiare di solidarietà nei confronti degli ultimi anche le chiese ricettizie e le confraternite, che erano istituzioni d’ispirazione religiosa ma indipendenti dalle gerarchie ecclesiastiche. Esse gestivano enormi patrimoni fondiari derivanti da lasciti e donazioni ed erano regolate da statuti così minuziosamente rispettosi delle prerogative dei soci e dei principi mutualistici da farcele apparire quasi come cooperative sociali ante litteram.
Questa storia sociale delle nostre campagne non è per niente nota, ma in essa si ritrova il retroterra culturale e valoriale delle pratiche di agricoltura sociale, che ora, in una società che vede allungarsi l’attesa di vita, dobbiamo far diventare eccellenze, modelli efficaci di welfare locale, sostitutivi del modello redistributivo – ormai in crisi con la globalizzazione – e capaci di produrre contestualmente ricchezza e servizi alla persona.
La marginalità è diffusa: non c’è solo nelle campagne ma anche nelle città; non c’è solo al Sud ma anche al Nord. Marginali sono i disabili, i tossicodipendenti, i detenuti, gli anziani soli, i minori in difficoltà, i lavoratori espulsi dalle attività produttive a causa della crisi, gli immigrati. Come collegare queste marginalità diffuse – che i modelli attuali di welfare non sono in grado di fronteggiare – agli aspetti positivi, tipici, identitari della marginalità agricola, trasformandola così in un’opportunità di sviluppo? E’ possibile farlo solo abbattendo i muri divisori di situazioni che non sono avvezzi a dialogare: le aree urbane e quelle rurali; le attività produttive e il welfare locale; l’agricoltura e la rete dei servizi sociali e socio-sanitari; le campagne e i bisogni abitativi; le diverse discipline e competenze che esistono in questi mondi diversi. Si tratta di superare le separatezze in un processo di reciprocità.
E’ questo il senso della proposta di legge regionale, che è stata presentata da Alessandro Singetta di “Alleanza per l’Italia” su quest’argomento. Nel testo, l’agricoltura sociale volutamente non è definita, non è considerato un mero aspetto della diversificazione delle attività agricole accanto all’agriturismo e alle attività didattiche. Al centro è posto il progetto con i suoi obiettivi, prima ancora del soggetto attuatore. Dirimente è la relazione delle persone coinvolte con le risorse naturali, con gli animali e con i processi agricoli, come percorso capace di creare benessere individuale e sociale e, al tempo stesso, di collegarsi a reti locali di economia solidale, in una dimensione imprenditoriale e competitiva che non deriva da una singola struttura operante in solitudine, ma da una serie di attività agricole, sociali, culturali, ricreative, turistiche tra di loro collegate. Al centro è, dunque, posto un progetto che s’inserisce in un’economia civile alimentata da virtù civiche come la capacità di discernere il bene comune e di agire in conformità di esso.
Si tratta di favorire processi aggregativi intorno a progetti che sono ideati insieme dagli agricoltori e dai soggetti pubblici e privati che operano nel sistema integrato d’interventi e servizi sociali con un’azione molto forte volta a trasformare nuovi e diversi bisogni sociali in domanda strutturata di servizi, a organizzare l’offerta di siffatti servizi e a promuovere l’incontro tra domanda e offerta. Tutto questo richiede animazione territoriale, formazione per la progettazione, sviluppo di processi partecipativi. Per soddisfare tali esigenze, la proposta di legge individua strumenti e procedure. Si tratta, del resto, di percorsi di sviluppo rurale che i Piani di azione locale, promossi dai GAL, dovrebbero avvantaggiare nei prossimi mesi, quando usciranno i bandi, e che le politiche comunitarie post 2013 dovrebbero prevedere come una possibile azione della strategia Europa 2020, volta a conseguire una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva delle nostre società.
Si apre per la Basilicata la concreta prospettiva di costruire l’immagine di una regione dell’accoglienza e dell’inclusione, come uno dei perni del suo sviluppo, attrezzando le campagne di strutture produttive e reti di economia solidale per rivitalizzare tradizioni civiche, soddisfare bisogni locali e intercettare una domanda crescente di turismo sociale e culturale nei paesi industrializzati.
*Presidente Rete Fattorie Sociali
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA