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di Nino D’Agostino
L’establishment del partito democratico, che come è noto, esercita un ruolo pressocchè egemone in Basilicata, organizza oggi un seminario di riflessione sul futuro della regione.
Il compito non è certamente agevole: la Basilicata è nel mezzo di una “tempesta perfetta”, caratterizzata da una crisi regionale strutturale, a cui si sono aggiunti dal 2008 gli effetti della crisi epocale che ha colpito l’economia mondiale.
Oggi i problemi socio-economici sono per la regione lucana molto più complessi di quelli del passato.
Manca quel clima di fiducia e di speranza che si avvertiva prima, pur avanti a difficoltà nettamente superiori a quelle odierne.
Il grande esodo degli anni ’60 e ’70 era, sia pure parzialmente, compensato da un alto tasso di natalità, la regione è stata investita da uno straordinario intervento di infrastrutturazione viaria, irrigua, industriale, la riforma agraria degli anni ‘50 ha gettato le basi della moderna agricoltura lucana.
Se attualmente la costa metapontina non registra grandi disastri ambientali, lo si deve alla realizzazione degli invasi che hanno imbrigliato 3 dei quattro fiumi che sfociano nello ionio.
Si è assistito ad un esaltante processo di programmazione economica e territoriale (dal piano di sviluppo 1966-70 del Comitato regionale per la programmazione economica al progetto ionio-europa, ecc.)
Negli anni ’90, la Basilicata è stata oggetto di un processo di industrializzazione che ha modificato profondamente il sistema produttivo, esaltandone le esportazioni e dando luogo al raddoppio della occupazione industriale in senso stretto.
Tutto questo oggi è in discussione e corre il rischio di non esprimere le sue potenzialità, nonostante l’emersione di risorse naturali importanti, come il petrolio.
I due grandi poli di eccellenza industriale (Melfi e Matera) sono in affanno (per usare un eufemismo). Il tessuto demografico subisce lacerazioni non facilmente ricucibili, soprattutto nelle aree interne. La crisi nazionale non ci consente di ipotizzare grandi eventi industriali di origine esterna. Dovremo operare in un quadro di riduzione delle risorse pubbliche nazionali ed europee ( causata dalla uscita senza fondamento dalle aree dell’ob.1, dall’avvio di un malinteso concetto di federalismo fiscale che penalizza le autonomie locali e così via). E ciò che è più grave: Siamo pur sempre in presenza di “coalizioni distributive” che consumano in modo parassitario risorse e che di conseguenza sono la causa principale della debole crescita economica regionale.
Se siamo passati da 640 mila abitanti degli anni ’60 del secolo scorso ai 585 mila di oggi, pur essendo una regione nettamente sottopopolata, è segno che siamo in una situazione tendenziale che non ci possiamo più permettere. Dobbiamo cambiare in politica, nei comportamenti culturali, in economia.
Consumiamo più ricchezza di quanto ne produciamo.
L’alternativa è ovvia: le imprese, da un lato, sono chiamate a produrre di più e gli altri attori sociali,ossia coloro che lavorano nelle retrovie e non sono direttamente esposti alla competizione globale, dall’altro, sono chiamati a mettere in funzione pratiche e comportamenti conseguenti, come se fossero impegnati ad una sfida della competizione globale.
Alla politica spetta il compito di creare un contesto favorevole allo sviluppo del capitale umano e di quello sociale, nell’ottica salveminiana di farsi portatrice di un progetto di cambiamento da portare avanti anche contro interessi contingenti e localistici.
Mettere ordine nell’accumulazione del capitale fin qui realizzato, con una chiara visione del futuro e con una vincolante strategia d’intervento, incardinati in puntuali strumenti di programmazione rappresenta la via maestra per uscire dalla palude della arretratezza socio-economica.
Uscire dalla crisi si può, si deve. Ce lo dicono i veneti che all’inizio del secolo scorso stavano peggio di noi. La crisi è per molti aspetti salutare; la Grecia difficilmente avrebbe affrontato le corporazioni e le protezioni senza la pressione della crisi e della azione europea.
La stessa regione Basilicata difficilmente avrebbe messo mano alle C.M., alla sanità, se non fosse stata spinta dall’esigenza di contenerne i costi.
Certo molte soluzioni dei nostri problemi attengono a responsabilità e centri di decisione esterni: Governo centrale, Unione Europea sono istituzioni che spesso non ci aiutano.
Noi comunque siamo chiamati a fare la nostra parte (tutti, nessuno escluso), misurandoci sul terreno culturale.
Nel nostro modello sociale prevalgono stereotipi mentali, suggeriti dalla politica, dalla famiglia, da tanti luoghi terzi (scuola, università, chiesa cattolica, ecc.) che ci spingono a camminare con le stampelle, piuttosto che con le nostre gambe.
Dal PD lucano mi aspetto una proposta forte di rinnovamento e di cambiamento della società regionale contro questo modo di essere. Ne ha tutte le potenzialità per farla: una classe dirigente giovane e ben supportata da una vecchia guardia ancora piena di passione politica, ben lontana da vicende di corruzione che caratterizzano molte altre regioni italiane, un radicamento di potere talmente forte da consentire di pensare in grande e di rischiare le prevedibili reazioni delle coalizioni distributive in atto.
In fondo, la vera sfida per il pd lucano è ottenere consenso sulla base di politiche di sviluppo e di un nuovo “contratto sociale”, buttando alle ortiche il vigente sistema di potere e di relazioni sociali, in cui i bisogni primari sono soddisfatti come favori e come merce di scambio.
Colpire rendite e mercati protetti che allignano nella pubblica amministrazione, nei meandri della spesa pubblica ed introdurre elementi di competitività e di produttività, privilegiando il merito, è difficilissimo, rischia di rompere i meccanismi del consenso in atto..
Ma se vogliamo crescere, non c’è altra via che questa. Qui si misura una classe dirigente.
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