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di PIETRO MANCINI
Il legittimo rimpianto per Enrico Berlinguer è dovuto al fatto che i grandi vecchi sembrano più vivi di molti di quelli che Travaglio ha definito gli attuali “morti viventi” del teatrino politico? C’è questo elemento, nella rivalutazione del leader del “partitone rosso”, Enrico Berlinguer, abbozzata, di recente, dal ministro Tremonti e dall’ex senatore comunista Macaluso. Ma quanti sottolineano la modernità delle idee di Berlinguer dovrebbero aggiungere 3 considerazioni: 1) L’insistenza di Enrico sulla trasparenza e sulla pulizia non fu inserita in un contesto gretto e moralistico, come quelli mediocri e “gossipari” di alcuni esponenti dell’attuale opposizione, ma politico. A Scalfari, nel 1981, il capo del Pci spiegò: «La questione morale fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato, da parte dei partiti e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione di governo e con i metodi di governo, che vanno abbandonati e superati». 2) Gli elogi odierni a Berlinguer non fanno dimenticare la decisione di Fassino e Veltroni di escluderlo dal “Pantheon” del Pd, sostituendolo proprio con il suo grande nemico, Craxi, che – sentenziò Walter nel 2009 – «modernizzò la sinistra più di Enrico». 3) Anche il Pci berlingueriano contava su esponenti giustizialisti, come Pecchioli, ma fu protagonista, in Parlamento, di memorabili battaglie contro l’ingerenza degli organi dello Stato nelle esistenze dei cittadini, contro la faziosità giudiziaria come arma di lotta politica e contro l’umiliazione degli eletti dal popolo sovrano. E il cosentino professor Rodotà, eletto senatore nelle liste del Pci, che oggi in Tv censura la vita, privata, e le scelte “ritenute libertine” del premier, nel suo libro “La vita e le regole”, proclamò l’inalienabile diritto all’intimità e alla riservatezza delle conversazioni telefoniche. E non è difficile ipotizzare che un altro dirigente del Pci di primo piano, Gerardo Chiaromonte, che fu direttore dell’“Unità”, mai avrebbe preso per oro colato, sul giornale fondato da Gramsci e oggi diretto da Concita de Gregorio, le dichiarazioni delle presunte protagoniste delle notti di Arcore, dal momento che, da presidente dell’Antimafia, il senatore campano mise alla porta il pentito Buscetta, poi santificato, in funzione anti-Andreotti, da Violante. E oggi colpisce che, mentre molti capi del centrosinistra usano la “Puttanopoli” di Silvio nel tentativo di cacciare il premier e la pannelliana Bonino, già abortista e pro-matrimoni tra i gay, si ricicla in bigottona, tocchi all’avvocato padovano del Cavaliere, Ghedini, porre interrogativi sul ruolo, nella vicenda, dei servizi di sicurezza e degli apparati dello Stato. Invece, la sinistra tace sulla diffusione impressionante delle intercettazioni telefoniche “a strascico” (100 mila solo nel “caso Ruby”!), a differenza di quanto fece negli anni ’70 e ’80, quando denunciò gli spionaggi illeciti, le trame oscure, le toghe incontrollabili, i tentativi golpisti. Fu un caparbio deputato socialista calabrese, Giacomo Mancini, a sollevare, per primo, alla Camera e sui giornali, il coperchio del maleodorante pentolone dei telefoni intercettati abusivamente e a dedicare al capitolo dell’indispensabile riforma dei servizi segreti e delle forze di polizia molte pagine nella relazione, che svolse, a Genova, da segretario del Psi, nel 1972. E, all’indomani di quel congresso, Mancini fu estromesso dalla segreteria, soprattutto per l’intervento dei “poteri forti”, che finanziarono una violenta campagna scandalistica contro il leader del Psi, montando il cosiddetto “affaire Anas”. Dopo alcuni anni, l’ex ministro dei Lavori pubblici venne scagionato da tutte le accuse. Ma oggi, 37 anni dopo quelle torbide vicende, non ci si può non porre lo stesso interrogativo, formulato da Paolo Mieli, storico ed ex direttore del “Corriere della Sera”, attestato su una linea tutt’altro che garantista sul “caso Ruby-Berlusconi”: «La distruzione di Mancini? Chi era e cosa avrebbe potuto essere Giacomo, leader del Psi nel 1970 e nel pieno del suo vigore, quando fu investito dalla campagna scandalistica, che prese le mosse dal “caso Anas”?» E i giornalisti Jannuzzi e Scalfari, imbarcati da Mancini in Parlamento nelle liste del Psi (Nenni e Craxi erano contrari), dopo i loro articoli sull’“Espresso” sul “mini golpe” del generale De Lorenzo, vergarono commenti e servizi di fuoco contro alcuni magistrati della Procura di Roma, accusandoli di aver ordinato intercettazioni telefoniche illegali e poi di aver fatto sparire 40 bobine di conversazioni su questioni molto delicate. Certo, oggi, come allora, difendere le libertà individuali e i diritti dei cittadini è scomodo. Ma quella sinistra decise di schierarsi contro le “deviazioni degli ermellini” e per il controllo democratico dei “Corpi separati” dello Stato. Nenni e Mancini, Berlinguer e Bufalini si guardarono bene dal convocare manifestazioni, inneggianti alle Boccassini dell’epoca e con al centro slogan tipo “Intercettateci tutti!”, che evocano i metodi dello Stato di polizia, dall’Ovra fascista alla Stasi comunista. E lo stesso Giorgio Napolitano, che visse, seppure in posizione defilata, quella stagione, dopo aver bacchettato il presidente del Consiglio, potrebbe riprendere e sviluppare, da numero uno del Csm, l’esternazione che, “solo” 10 anni dopo la morte di Bettino, pronunciò in memoria di Craxi. Allora il Capo dello Stato ammise che, a partire dai primi anni ’90, ha trovato «sempre di più, spazio, sostegno mediatico e consenso l’azione giudiziaria, con un conseguente e brusco spostamento degli equilibri nel rapporto tra politica e giustizia». E l’ex braccio destro di Veltroni, Goffredo Bettini, rivolgendosi ai capi di Pd e Idv, scatenati anti-Cavaliere, ha spiegato che «concentrare ogni soluzione nella cattura del nemico-colpevole diventa, in fondo, assolutorio rispetto alle proprie debolezze, insufficienza e defficoltà». Voci isolate nell’opposizione, priva di una leadership autorevole e subalterna alle toghe d’assalto, come in passato a Moretti e a Cofferati. E che si limita ad applaudire Santoro e le escort ad “Annozero”, con mega-compensi pagati anche dagli utenti, nelle prime serate della Rai. E, a proposito della Tv pubblica, siete sicuri che Biagione Agnes (Dc) ed Enrico Manca (Psi) sarebbero stati in silenzio, qualora un conduttore avesse sbattuto il telefono in faccia a De Mita o a Craxi, come ha fatto con l’odiato “Sultano di Arcore”, sull’ex(?) “tele-Kabul”, di curziana memoria, Giovannino Floris?

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