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di ENZO ARCURI
Chi lo avrebbe mai detto, anche il mito del più grande porto del Mediterraneo rischia di frantumarsi sugli scogli di una crisi che non è soltanto economica. Gioia Tauro non è più l’ancora alla quale per anni la Calabria ha tentato di aggrappare le speranze di un futuro finalmente diverso, la prospettiva di un percorso virtuoso verso traguardi di crescita e di sviluppo. Il porto, che menti illuminate ed un potere politico responsabile avevano tenacemente voluto negli anni 70 all’interno di un progetto organico di rilancio dell’economia regionale e che, per molteplici ragioni e per una lunga sequenza di vicende ostili e negative, era poi diventato l’unica sola opera realizzata, si era imposto, per i suoi fondali, dopo anni di denigrazioni e facili ironie, all’attenzione della più importante compagnia marittima del mondo. Sono arrivate le grandi gru, in porto hanno attraccato i giganti del trasporto marittimo, milioni di containers sono stati trasferiti sulle navi più piccole o caricati sui convogli ferroviari, i lavoratori del porto sono diventati un piccolo esercito, più di mille giovani hanno trovato occupazione nei servizi portuali. Era iniziato il grande sogno di Gioia Tauro, il simbolo di una regione che tentava di voltare pagina. Purtroppo quello costruito attorno a Gioia Tauro è rimasto soltanto un sogno. Non soltanto perché adesso si parla di crisi, perché altri grandi porti nel frattempo si sono attrezzati nel Mediterraneo e fanno la concorrenza al porto calabrese con costi decisamente inferiori, perché è in corso una dura competizione fra i colossi del trasporto marittimo, guidati da svedesi e tedeschi, per il controllo della società di gestione. Gioia Tauro è rimasto un sogno perché attorno al porto c’è il deserto, perché in tutti questi anni si è fatto molto poco per rendere lo stesso porto competitivo adeguandone i collegamenti con il resto del territorio regionale e nazionale, perché nessun investimento serio per insediamenti produttivi nel frattempo è stato programmato e realizzato. E’ stato costruito l’unico inceneritore della regione (che qualcuno vorrebbe raddoppiare) e si è pensato ad un rigassificatore, un impianto per la trasformazione del gas che a Gioia Tauro arriverebbe via mare. Per il resto nulla, un bel niente, a dispetto di tante idee puntualmente naufragate. Si dice che a scoraggiare gli investimenti sia stata e sia la presenza massiccia della ndrangheta che in questa area ha radici antiche e che controlla militarmente il territorio, una malapianta che, nonostante i molti colpi inferti dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, è risultato finora estremamente complicato e problematico estirpare. Probabilmente è una causa ma non è la sola. Come si dice è il contesto complessivo che impedisce alla Calabria di essere competitiva ai fini degli investimenti produttivi. Ci sono responsabilità a vari livelli e comunque tutte riconducibili alle classi dirigenti, in primo luogo quella politica, come da tempo viene denunciato senza che succeda mai qualcosa che consenta di invertire un trend decisamente negativo. E qui cade a fagiolo l’analisi della diplomazia statunitense in Italia. Si tratta di un rapporto inviato a Washington dal console americano a Napoli Truhn dopo un viaggio compiuto nelle cinque province calabresi nel novembre del 2008. Questo rapporto è finito fra i file svelati da Wikileaks e ripreso dai giornali nei giorni scorsi. Il giudizio del diplomatico statunitense è severo ed impietoso. Sostiene il console americano – e questa sua opinione fa testo negli uffici della segreteria di stato degli USA – che la Calabria sopravvive perché fa parte dell’Italia, cioè è assistita dal governo nazionale, che la regione è sotto il dominio della ndrangheta, che in Calabria non c’è una società civile, nel senso che manca una coscienza civica dei cittadini, che c’è una classe politica inefficiente, in larga parte fatalista, che non crede nella capacità della regione di “contrastare o fermare la caduta dell’economia regionale” e di “uscire dal capestro della ’ndrangheta”. Non è certamente un bel sentire, è un’analisi rigorosa che deve indurre a riflessioni amare su colpe e negligenze, un pessimo biglietto da visita che non incoraggia certamente buoni propositi e non aiuta . Il diplomatico salva soltanto l’Università della Calabria e S. Giovanni in Fiore, la città dell’abate Gioacchino, le cui profezie sono state citate dal presidente Obama durante la campagna elettorale. Un’annotazione cult che ha sorpreso e ha naturalmente inorgoglito la città silana che non ha perso tempo ed ha invitato Obama a visitare i luoghi di Gioacchino. Un invito che, nonostante il fascino che certamente l’abate esercita sul presidente americano, probabilmente non avrà seguito. Specialmente se, incuriosito, Obama vorrà sapere di più della Calabria e gli faranno leggere il rapporto del suo console a Napoli.

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