4 minuti per la lettura
di ALDO CRISTIANO
In prossimità della celebrazione dei 150 anni dell’Unità di Italia credo che sia doveroso per ognuno di noi riconsiderare storicamente e idealmente il quadro di riferimento da cui nasce il Risorgimento. Una lettura serena degli antefatti, degli antagonismi in campo e degli effetti dell’Unità di Italia, così come si è determinata e sviluppata, può aiutarci a capire le ragioni della nostra condizione e dei problemi irrisolti della società italiana e meridionale in particolare. L’agiografia del Risorgimento per un lungo periodo della nostra storia, per come ci è stata raccontata, sia attraverso i suoi eroi, sia attraverso i testi scolastici in uso, sia attraverso opere letterarie come il libro “Cuore” di Edmondo De Amicis, ha tentato un’impresa di unificazione nazionale con la ricerca di un linguaggio accessibile a tutti e di un sistema di valori condivisi, facilmente assimilabili, ma, nello stesso tempo, in grado di farsi carico di quella spinta ideale necessaria al costituirsi di una nuova nazione. A ben guardare, il registro alquanto patetico e sentimentale adottato nasceva, e nasce, dalla volontà di agire sulla realtà, di piegarla a precostituite finalità, anche se l’assunto di partenza era, ed è, che il popolo semplice poteva, e può, lavorare solo di sentimento e non di intelletto e di raziocinio. Molto interessante e ricca di una avvincente documentazione è la rilettura che Giordano Bruno Guerri fa della vicenda risorgimentale nel suo libro “Il sangue del sud”. Uno degli aspetti che egli mette in risalto, attraverso una ampia documentazione proveniente da una vasta ricerca bibliografica e archiviale, è l’evidenza di come quella delle camicie rosse sia stata una conquista territoriale e politica, ma non una liberazione sociale, visto che il nuovo corso storico, come il vecchio, non accettò che fossero toccati gli interessi della proprietà latifondista, infatti i baroni siciliani e calabresi salirono sulla carrozza garibaldina, anche per scongiurare il pericolo di un pur minimo accenno di borbonica riforma agraria che togliesse una parte delle proprietà demaniali ai grandi latifondisti per darla ai contadini. Le frasi che Giuseppe Tomasi di Lampedusa fa proferire a Tancredi ne “Il Gattopardo” rende perfettamente comprensibile l’orientamento dei baroni siciliani rispetto alla vicenda garibaldina: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Ci appare importante sottolineare che la nostalgia e il rigurgito neoborbonico è il segno degli errori grossolani della irriverente e miserevole politica attuale di qualche partito di governo del Nord da un lato, ma pure una sorta di ricorrente autoflagellazione del Sud nel rimpianto e nell’arroccamento sterile nell’orgoglio del passato. Questo rifiorire di pubblicazioni che tentano di riscrivere la storia del Risorgimento, certamente non è il terreno culturale più rispettoso e riverente se esse si rivelano come una messa in discussione della grande portata della formazione dello stato unitario. Come pure il rifiorire di tentativi di strumentalizzazione di questo revanscismo culturale, nel tentativo di raccogliere consenso elettorale con la formazione dei vari partiti “suddisti”, è altrettanto deprecabile perché il Sud non può avere futuro e progresso se continuerà a lacerarsi in una sorta di eterno e infruttuoso piagnisteo. Se lo sviluppo del Sud è stato quello che è stato, al di là dell’atteggiamento dello stato unitario rispetto alle questioni del meridione, i meridionali e la loro rappresentanza politica debbono pure ricercarla in se stessi la causa della loro condizione e del fallimento della realizzazione effettiva dell’unità della nazione che non potrà mai dirsi realizzata se persisterà sempre “una questione Nord-Sud”. Questo perché la storia dei 150 anni dell’unità di Italia comprende tutti i fallimenti dei politici del meridione a partire dalla mancata denuncia della conservazione dei privilegi dei latifondisti e della mai affrontata riforma agraria, a finire alla dismissione della strategia economica delle “Zone Franche” di questi giorni. E per venire alla nostra Regione, la storia dei nostri 150 anni è la storia pure dei tanti fallimenti della nostra classe politica calabrese che seppure riuscì a inserirsi nelle cariche ministeriali e di governo, rappresentò, per molti decenni, una sorta di garanzia di immobilismo sociale e di clientelismo politico e affaristico. La vicenda risorgimentale è pure la vicenda della tolleranza della illegalità e della irregolarità operata ai fini del mantenimento o della riconquista del regno prima e del mantenimento del potere politico poi, in una sorta di involuzione storica e sociale che segna forse pure il passaggio, nella evanescenza delle regole, dal fenomeno del brigantaggio al fenomeno della ndrangheta cresciuto a dismisura sino a configurare, come ai giorni nostri, quasi un terzo stato, con le sue regole e le sue strutture. L’arco temporale di questi ultimi 150 anni ha compreso tutti i fallimenti degli interventi in Calabria e cioè il fallimento del progetto ’80, quindi il fallimento della previsione del polo della liquichimica di Saline, della centrale a carbone di Gioia Tauro, del polo siderurgico, della industria chimica della Sir della Piana di Lamezia e via di seguito. La incapacità della sinistra di fare una opposizione rafforzata dalla presenza sul territorio e dalla partecipazione diffusa, ha impedito il nascere di una cultura nuova della politica. La storia dell’ultima sconfitta elettorale del centrosinistra calabrese mette in risalto la impellenza di lavorare per rinnovare, in un moto di rinascita per dare luogo a un nuovo risorgimento ideale, la politica e i suoi protagonisti, dando spazio ai giovani e alle donne per dare prova, alla nazione unità, della capacità dei calabresi di cambiare il loro destino e quello dell’Italia intera.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA