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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
La settimana appena trascorsa è stata marcata dalla strage di Scaliti di Filandari, che ha suscitato orrore e sgomento in tutto il Paese, in particolare nella nostra regione, direttamente interessata da questo tragico evento. Il numero delle vittime, le modalità dell’esecuzione, la dura determinazione dell’omicida (o degli omicidi), le altre modalità della strage hanno riproposto perentoriamente il problema della violenza che si sviluppa in maniera costante in queste nostre contrade. Non può essere occultata, infatti, una serie di altri avvenimenti che, in queste stesse località, si situano in un medesimo orizzonte di violenza. Nei giorni scorsi ad Arzona, altra frazione di Filandari, l’autosalone dei fratelli Maccarrone ha subito l’ennesima esplosione di una bomba; l’ex sindaco, Domenico Talotta, è stato destinatario durante un funerale di un’intimidazione. Nella stessa zona sono state compiute numerose operazioni anticrimine rivolte alla ’ndrina dei Soriano, legata al clan dominante dei Mancuso di Limbadi, tra le quali si segnala quella denominata “Rotarico” (dall’antica tassa imposta nella città di Rota ai tempi dell’impero romano), operazione che ha portato all’arresto di 11 persone, tra cui esponenti di spicco del clan Soriano, che pretendeva una tassa di venti euro per ogni camion che avesse dovuto attraversare il centro abitato. Nel territorio vibonese, come ha notato Eduardo Meligrana in un lucido articolo su L’Espresso, dal significativo titolo: “Il Vibonese: l’inferno italiano”, «si intrecciano malaffare, malasanità, criminalità organizzata e politica, in un vortice che non risparmia niente e nessuno». È una situazione altamente drammatica, che autorizza a parlare di un’assoluta emergenza. Sarebbe un errore presentare la strage di Scaliti come una aberrazione isolata, senza alcuna connessione, diretta o indiretta, con la ’ndrangheta che incombe sul territorio, o ritenerla episodio di una catena criminale che trova nell’organizzazione malavitosa la sua origine e la sua esaustiva interpretazione. In effetti, sia tale strage che la ‘ndrangheta sono ambedue, pur nella relativa autonomia, frutto di una stessa cultura della violenza, che fornisce orizzonte di significazione a gesti, reazioni, forme associative, obiettivi, modalità di perseguimento di essi, e così via. Non è un caso che il prefetto di Vibo Valentia, Luisa Latella, abbia constatato amaramente: «Mi chiedo come possono cambiare le cose se in questa realtà, quella vibonese, non c’è mai stata una risposta seria della società civile. Cosa possiamo insegnare di questo passo alle giovani generazioni. Qui non rimane nulla», a parte, appunto, la cultura della sopraffazione e della violenza. «In questo territorio, in molti casi, la cultura contro la violenza criminale è solo di facciata [.] anche se debbo riconoscere che ci sono persone e tra questi ci metto anche alcuni sindaci, che meriterebbero la medaglia, altri invece .». Si tratta di una società agropastorale nella quale coesistono, contemporaneamente e contraddittoriamente, la disponibilità ad acquisire le tecnologie contemporanee e la permanenza del valore centrale della terra, del suo possesso. Non sorprenda quindi che chi ha interiorizzato i “valori” – nell’accezione antropologica – della violenza, in situazioni di conflitto ricorra non alle “armi” della ragione, ma alla ragione delle armi. Un quadro siffatto sollecita una condanna netta, senza appello, senza tentativi di giustificazione. Esso pone una serie di domande alle quali bisogna dare una risposta. Non potendo, ovviamente, avventurarsi sul piano, sbagliato e ingiusto, della criminalizzazione dell’intera Calabria, negando il dato che moltissimi calabresi ispirano le proprie azioni a un diverso orientamento e traducono concretamente nel loro vissuto i tratti della operosità, della legalità, della solidarietà, dovremo pur domandarci cosa si è fatto perché questa cultura sia sempre più diffusa, contrastando l’ambito della cultura della sopraffazione e della violenza di cui si è detto. Nel caso in questione, cosa si è fatto perché l’omicida (o gli omicidi) ritenesse possibile un altro ordine di azioni, demandando alle Istituzioni competenti l’intervento per le ingiustizie subite? Non è accettabile che si ritenga legittimo il “farsi giustizia da soli”, ma come si giunge a tale convinzione? Il “borghese piccolo piccolo”, protagonista del capolavoro di Monicelli, sarebbe stato indotto a rapire e a torturare l’assassino del figlio se l’omicida avesse ricevuto dallo Stato la punizione adeguata? La faida non costringe a erigersi a giustizieri perché, nell’assoluta sfiducia nella giustizia statuale si vuole comunque colpire chi ha iniziato la catena delle offese, inaugurando così una serie tendenzialmente infinita di offesa-vendetta-offesa e così via? Speriamo che a Scaliti l’uccisione di Domenico Fontana e dei suoi quattro figli non scateni azioni vendicatrici. A Scaliti, come in tante altre zone, non sono state vittime soltanto i destinatari delle azioni delittuose; lo sono stati, anche se diversamente, i protagonisti di queste azioni e tutti coloro cui è stato sottratto il futuro, la possibilità di una vita diversa, di una cultura più accettabile, la realizzazione della propria umanità. Tale realtà chiama in causa tutti noi, certo in maniera diversa a seconda dei ruoli e delle funzioni che svolgiamo. Mi riferisco in primo luogo a quanti operiamo nella scuola, nelle associazioni e nei mezzi di informazione. È in tali ambiti, in particolare, che dobbiamo diffondere, con l’insegnamento e con l’esempio, i valori della diversa cultura qui auspicata, senza ovviamente ritenere esenti da tale responsabilità tutti gli altri ambiti della nostra vita associata. L’emergenza attuale rende tale compito urgente. Indifferibile.
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