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di PIETRO MANCINI
Opportunamente, alcuni osservatori avevano invitato i cronisti giudiziari e i magistrati a non trasformare in un sussiegoso “storico” della mafia e dell’antimafia Massimo Ciancimino. Il figlio di don Vito è adesso formalmente indagato dagli scrupolosi magistrati della Procura di Caltanissetta, che domani lo “torchieranno”, per calunnia nei confronti del direttore dei Servizi segreti, Gianni De Gennaro, e di Lorenzo Narracci, funzionario dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna (ex Sisde). Inoltre, a Ciancimino junior sono contestati il favoreggiamento nei confronti del misterioso “don Franco”, presunto anello di congiunzione tra lo Stato e Cosa nostra, secondo le dichiarazioni rese dal testimone, e la violazione del segreto istruttorio, nei colloqui, intercettati, con alcuni giornalisti. Di recente, la vicepresidente dei deputati del Pdl, Jole Santelli, estimatrice di Gianni De Gennaro, mi ha detto: «Se Giovanni Falcone non fosse stato ucciso, a Capaci, ritengo che avrebbero “mascariato” anche lui!». Analisi condivisibili. Ma, a proposito di “doppiopesismo” mediatico e giudiziario, sino a quando il figlio dell’ex primo cittadino, Dc e mafioso, di Palermo ha (stra)parlato di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’Utri – benché i giudici del processo di Appello del senatore del Pdl non gli abbiano creduto: collusi anche loro ? – veniva considerato un superteste. Insomma, Massimo era ossequiato come un personaggio fondamentale, addirittura, per ricostruire la storia, politica, criminale e giudiziaria del Paese e degno del massimo rispetto. E, ça fait sans dire, veniva portato come un santino nei processoni in tv – senza gli “imputati” e i loro difensori, di Travaglio, “Sant’oro” e Ruotolo, sulle paginate dei giornali giustizialisti e dei molto venduti libri investigativi e di denuncia. Ma, dopo che Ciancimino junior ha osato coinvolgere nelle presunte trattative dei primi anni ’90, tra apparati dello Stato e il boss mafioso Provenzano, l’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro – notoriamente vicino a Violante, al sociologo progressista, Pino Arlacchi, e all’ex procuratore di Palermo, Caselli, dai tempi in cui, pur avversato dal capo della polizia, Vincenzo Parisi, divenne il direttore della Dia e fu definito da Giuliano Ferrara il “Gran Signore dei pentiti” – abbiamo notato un repentino cambiamento. Nelle corrispondenze dei giornali e delle tv da Palermo e nelle analisi dei mafiologi, in servizio permanente effettivo, l’ambiguo rampollo del protagonista del sacco edilizio di Palermo è tornato a essere rappresentato come una persona piuttosto losca e reticente, un teste contraddittorio e da prendere con le pinze. Soprattutto dopo il recente suo incontro, a Bologna, con un indagato per ’ndrangheta, allo scopo di consegnargli un gruzzolone 100mila euro, in contanti, e di incassare titoli di credito per 70mila euro. E, dunque, non sarebbe stato meglio, se tutti avessero convenuto, da anni, sui dubbi, espressi da pochi osservatori, tra cui – si parva licet – lo scrivente, sull’ambigua figura di questo giovane e ricco signore siciliano? Che proviene da un mondo torbido ed è alla affannosa ricerca di una credibilità, a lui molto utile, per confondere le acque e per tentare di recuperare gran parte del “tesorone” di don Vito, che l’ex deputato dalemiano, Peppino Caldarola, ha bollato, non a torto, come “una delle figure politiche più spregevoli dell’Italia moderna”. Di recente, alla luce della testimonianza, resa all’Antimafia dopo. solo 17 anni dal giurista Conso, Guardasigilli nel 1993 – che ha riferito di aver tolto 300 detenuti, tra cui molti mafiosi, dal carcere duro, previsto dall’articolo 41 bis – è stato assestato un duro colpo a un “teorema” molto accreditato sui media. Secondo tale ipotesi, gli interlocutori del ricatto mafioso, attuato con il “papello” – che sarebbe stato fatto pervenire, tramite i Ciancimino, da Provenzano ai responsabili delle istituzioni – sarebbero stati i dirigenti del nuovo partito di Berlusconi, che in quella fase si stava organizzando, per contrastare la “gioiosa macchina da guerra”, guidata dall’allora segretario del Pds, Occhetto. E allora chi erano, realmente, gli interlocutori politici della trattativa, ammesso che questa “trattativa” ci sia mai stata? Un personaggio-chiave di quel drammatico periodo è Luciano Violante, allora presidente della Commissione parlamentare Antimafia e leader, influente e temutissimo, del cosiddetto “partito dei giudici”. Da tempo, l’ex ministro andreottiano, Cirino Pomicino, e altri commentatori chiedono a Violante di svelare la ragione per cui, negli ultimi mesi del 1992, prima accolse e poi respinse la disponibilità a farsi interrogare, manifestata da don Vito Ciancimino, allora detenuto a Rebibbia. Cirino Pomicino, e non solo lui, è tormentato dal sospetto che quell’interrogatorio, poi saltato, avrebbe svelato molte verità e, probabilmente, avrebbe potuto evitare le bombe e i morti del 1993. Che finirono, ma solo dopo il “niet” di Conso al rinnovo del “41 bis” ai mafiosi e l’inserimento nei programmi di protezione dei collaboratori di giustizia di centinaia e centinaia di boss e picciotti. In 10 anni, ben 4mila appartenenti alla criminalità organizzata vennero “riciclati”, con una nuova identità e non poco denaro a disposizione. Intese Stato-mafia, teoremi che vacillano, figli di boss, che scrivono libroni e straparlano in tv, “mascariando” persino un ex capo della polizia, De Gennaro, e il generale dell’Arma dei carabinieri, Mori, che ammanettò Riina: per venire a capo di tutti questi misteri, finalmente, i governanti e i capi delle forze dell’ordine e dei servizi dei primi anni ’90 dovrebbero essere chiamati a dire ciò che sanno, davanti a una Commissione parlamentare d’inchiesta. Che dovrebbe aprire un’indagine bipartisan, finalmente seria e approfondita, non accontentandosi di generiche esternazioni, di allusioni e di tardivi, e parziali, ricordi. Altrimenti, continueranno i polveroni e non soltanto i familiari delle vittime delle stragi, ma tutto il Paese continuerebbe a brancolare nel buio. E verrebbero insabbiate le responsabilità politiche, ministeriali e di consistenti settori “deviati” delle greche e degli ermellini.

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