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di PIETRO RENDE
Chi o meglio quale logica ha condotto il processo di unificazione del nostro Paese? Secondo una mia libera interpretazione, nel suo 150° anniversario si registrano rivendicazioni di tanti primati mediatici che vanno dai gossip e dal fascino della Contessa di Castiglione, cugina di Cavour inserita nella corte di Napoleone III, alle cannonate dei Bersaglieri, oggi definite “provvidenziali” da Benedetto XVI, passando, naturalmente, per Mazzini e Garibaldi, che però dovette fermarsi al Volturno e subire le sconfitte della Repubblica Romana e di Mentana dove gli chassepotes francesi mandarono in soffitta i fucili di Mongiana, ed escludendo sempre le masse popolari dei socialisti massimalisti e cattoliche con il loro motto: “Né eletti né elettori”, fino al Patto Gentiloni con Giolitti (elezioni 1913) e poi alla chiusura della Questione romana col Concordato del 1929). Parallelamente si assiste al ritorno delle critiche sui modi piemontesi di annettersi i vecchi staterelli di cui pure Cattaneo e Gioberti avevano auspicato l’unificazione confederalista anche sotto il Papa Pio IX , influenzato dai valori risorgimentali al punto da concedere un suo Statuto liberale fino a quando non fu costretto dalla “Mazziniana” Repubblica romana a rifugiarsi a Gaeta. Last but not least, un meridionalismo vittimistico, mai sopito, lamenta i danni irreversibili subiti dal Sud per quella “invasione” nel Regno delle due Sicilie sotto i Borbone. Soluzione militare o politica? Da “Capitalismo e Risorgimento” a “Cavour” di Rosario Romeo in poi, nessuno pone più in discussione il merito di Cavour di avere trasformato una questione militare in una soluzione di politica estera e commerciale coinvolgendo la Francia nelle nostre guerre d’Indipendenza nazionale e anticipando quel Patto di Londra (di Giolitti, con la Francia e la Gran Bretagna) che avrebbe soppiantato il Triplicismo (ossia la “santa” alleanza conservatrice con Prussia e Austria-Ungheria). Dunque, senza diminuire il riconoscimento degli altri contributi, anche di sangue, si deve alla “politica” e alla scelta dei suoi tempi di maturazione la metamorfosi della nostra fusione linguistica in unità statale e monetaria e il suo aggancio alla seconda rivoluzione industriale che richiedeva nuovi mercati e manodopera di riserva, come erano appunto quelli del sud per la commercializzazione delle produzioni nordiche. Benché gli Stati abbiano il compito precipuo ma non esclusivo di “sicurizzare”, sostenere e ampliare i mercati, non si dimentichi che le cruente cannonate di Porta Pia, contro cui il Papa aveva invano ordinato al capo degli zuavi pontifici di non rispondere, furono consentite dalla sconfitta di Napoleone III dai Prussiani, il 2 settembre a Sedan, ché altrimenti avremmo avuto una guerra civile tra soldati piemontesi e camicie rosse. Le prime reazioni ai metodi militari di procedere all’unificazione nel Sud si manifestarono nel Parlamento unitario subalpino già nel 1862 contro lo Stato d’assedio di Rattazzi e La Marmora fino alla Inchiesta Massari del 1863 in seduta segreta e tanto omissiva delle responsabilità e dei massacri militari da suscitare la contrarietà del calabrese Luigi Miceli e della sinistra alla “giustizia militare” contro il Brigantaggio prevista dalla Legge Pica del 1862; e così ancora con l’Inchiesta sui provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza in Sicilia nel 1875, seguita dalla più seria Inchiesta di Franchetti e Sonnino, a proprie spese, sempre sulla Sicilia, che cancellava l’immagine retorica del “paradiso” meridionale. Anche gli intellettuali e i nobili che potevano studiare ed erano prima ammessi nel “partito di corte”, adesso che erano esclusi e delusi dal Parlamento elettivo – tranne casi rari come Manzoni che rifiutò l’elezione con 48 voti nel collegio di Arona perché non si riteneva adatto a quella funzione – raccontavano criticamente le vicende de “ I moribondi di palazzo Carignano”, sede del primo Parlamento, in “Corruttela” o ne “L’eredità Ferramonti” del 1883, dove il nuovo eroe era “il cavaliere d’industria”, e in altra letteratura romanzesca per lamentare il “tradimento” degli ideali risorgimentali. Lo avevano fatto i patrioti dopo il Trattato di Campoformio con cui Napoleone I lasciava Venezia all’Austria; lo avrebbero ripetuto i partigiani dopo la Resistenza, persino il Presidente Ciampi (“Non è il Paese che volevo”) e oggi un film di Mario Martone (“Noi credevamo”) o una narrazione di successo editoriale premiato dal Rhegium Julii, il premio letterario oggi più importante della Calabria a “Terroni” del giornalista Pino Aprile che per polemica considera poco altri aspetti fondamentali di quella “storia”, a compreso il primo slancio di organica solidarietà nazionale dal Nord al Sud dopo il terremoto di Reggio e Messina che avvenne proprio in una saletta del Senato dove nel 1910 nacque l’Associazione nazionale interessi Mezzogiorno italiano (Animi) che elesse primo presidente onorario Pasquale Villari ed effettivo Leopoldo Franchetti. Intanto il Parlamento, dopo il trasferimento a Firenze nel 1865, dove aveva approvato le leggi di unificazione normativa e amministrativa di scuola francese, a Roma, era diventato l’immagine più rappresentativa delle varie anime e comunità territoriali perché aveva ampliato il diritto al voto a tutti i cittadini di sesso maschile nel 1919, con il sistema proporzionale che recepiva il ruolo dei partiti ideologici in sostituzione dei precedenti gruppi programmatici, dal connubio al trasformismo, e continuava a occuparsi seriamente di sicurezza sociale e squilibri interni. Dai militari-deputati si era passati ai medici-deputati, che nel 1900 affrontarono le sfide della malaria e della talassemia, ai tecnici della bonifica delle paludi Pontine e dello sfascio geologico, fino al governo Nitti che valorizzava “l’oro bianco”, ossia l’acqua delle dighe e della irrigazione (v. Sila-Neto-Crotone), a fini di trasformazioni agro-industriali ben oltre la crisi della seta naturale sostituita dal raion, dopo la malattia mondiale dei bachi da seta. Il meridionalismo in Parlamento. Principia da qui una vera politica meridionalistica, dallo “sfasciume pendulo sul mare” alle infrastrutture indispensabili per portare ai mercati lontani i prodotti del sud che, in regime protezionistico e di latifondo, costano di più e non sono competitivi sul mercato ormai unico perché scarsi di moderni contenuti tecnologici e con l’aiuto di pochi chilometri di ferrovia come quelli vantatissimi da Napoli a Portici contro i 1.600 km. del Piemonte e i 15mila km. di strade contro i 67 mila km. del Nord (S. Cafiero, Svimez). E se è vero che il Sud aveva meno debito pubblico rispetto al Nord questi però era protetto dalle banche miste e dalle tariffe doganali che verranno estese ai latifondisti del sud col dazio sul grano ottenendo come risultato la contrazione dei consumi interni e la reazione protezionistica degli altri Paesi. Perciò, oltre alle Leggi speciali per Napoli (1904), la Calabria (Chimirri) e la Basilicata (Zanardelli), che generano residui di bilancio e non funzionano, ci vuole ben altro che verrà dalla Repubblica in poi come la riserva del 40% di investimenti delle Partecipazioni statali, la Cassa per il Mezzogiorno, la scuola per tutti e le nuove Università di Stato nelle regioni sprovviste come la Calabria, il Molise, la Basilicata, e, per rompere la continuità di feudalesimo e latifondo, la riforma agraria di Segni e Gullo in Sila, in Maremma, nel Delta padano, contro l’emigrazione rurale che però cessò solo dopo il “miracolo economico”. L’avvento del fascismo aveva intenzione di farsi carico delle grandi Questioni aperte nella nuova società italiana: dal Mare nostrum per l’emigrazione in Africa alla nazionalizzazione delle masse, dalla partecipazione e indirizzo politico di partito al superamento di fatto o “materiale” (Mortati) dello Statuto Albertino, dal rafforzamento dell’Esecutivo non dipendente dal Re e dai militari alla saldatura con la società civile attraverso la Camera dei fasci e delle Corporazioni, dove viene potenziata con legge n. 2694/1923, che riprende una decisione in comitato segreto del 10 giugno 1913, l’indennità parlamentare di eguaglianza e pari dignità all’esercizio delle altre funzioni pubbliche (giudici, militari, eccetera) che verrà poi ridotta di 24mila lire annue negli anni recessivi, 1930 e ’34, come tutte le retribuzioni pubbliche. Un aneddoto precedente, quello di Turati che dormiva in vagone-letto (grazie all’ovulino parlamentare) per non pagare il conto dell’albergo a Roma! Ma il neo-Corporativismo finirà nella dittatura e nell’avventura di Libia e Somalia che aveva cercato con la forza coloniale l’apertura di lavori e nuovi mercati imprescindibili a qualsiasi sviluppo. Nell’immediato dopoguerra, la politica ritorna a dominare il quadro costituzionale. Gli alleati vincitori per attuare i loro piani di aiuto agli sconfitti (Erp, Urra, Marshall) gradiscono che in Germania resti il Cancellierato e in Giappone ritorni l’imperatore mentre in Italia si deve passare dalla Monarchia alla Repubblica e si approva una Costituzione di principii e regole condivise che garantiscono l’equilibrio dei poteri e il ripudio di qualsiasi tentazione autoritaria, ben oltre l’antiquato Statuto Albertino del 1848. Con la Repubblica parlamentare non decisionista e la Costituzione cessano dunque il dualismo Corona-Parlamento e si avvia un processo di riformismo costituzionale che deve tener conto delle autonome competenze dei nuovi poteri condizionanti, internazionali e locali, come il Parlamento europeo e le Regioni, l’autogoverno della Magistratura, la libertà di stampa, la perequazione territoriale, eccetera. Come scriveva l’on. Edoardo Arbib nel suo primo volume di “Cinquant’anni di storia parlamentare del regno d’Italia” “Gli atti del Parlamento sono veramente e per sè soli la più compiuta e più istruttiva storia del nostro Paese. di che è agevole concludere che il Parlamento è la più grande forza della Nazione” che, aggiungiamo, ha giovato e giova sia al Nord che al Sud come dimostra la storia dei ritardi pre-unitari e il recupero di questo primo secolo e mezzo di unificazione politica in Italia così come la parallela vicenda della Germania, mentre l’Europa ormai incalza come macro-regione transnazionale. Ai tardo-meridionalisti odierni limitiamoci a ricordare che solo in Parlamento e non nel Governo, anche nella governance di quello mediatico, c’è una maggioranza del Centro-Sud e la più efficace rappresentazione del paese reale in quello legale, tanto più che la legalità e la lotta alle mafie ormai estese in Padania esige ancora una forte e intelligente risposta unitaria e globale, integrale ed efficace, di un rinnovato stato sociale che in primis assicuri il lavoro ai giovani e alle donne meridionali. Non si può rischiare la sorte del Belgio che sta dividendosi tra Fiamminghi e Valloni creando problemi seri al Comando delle Forze armate. Attenti perciò a non buttar via il bambino del parlamentarismo con l’acqua sporca dell’attuale legge elettorale definita Porcellum! L’Italia diventerà sempre più internazionale ed euromediterranea.
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