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di FRANCO CRISPINI
La storia fornisce moltissimi esempi di personaggi che hanno impersonato la degenerazione del potere politico ed hanno tenuto sotto il tallone governo e popoli, circondati da cortigiani “zelanti”, pronti ad “ubbidir tacendo”. Per semplificare, potremmo raccoglierli tutti sotto l’insegna del “cesarismo”, termine e fenomeno cui è ricorso Fini molto tempo prima della “secessione”, a definire i modi dell’agire politico di Silvio Berlusconi, il modello di Partito nel quale nessun dissenso viene tollerato. Inutile dire, quello di Fini è un richiamo a Cesare imperatore romano col quale si vuole individuare una tendenza, che ovviamente nei secoli assume tante configurazioni (al presidente della Camera, attuale leader di Futuro e Libertà, sarebbe bastato pensare al fascismo mussoliniano senza andare tanto lontano), per la quale si producono tutte le alterazioni di un regime antidemocratico basato su di un dominio personale, un vero “sultanato”. In tempi non sospetti, il pensiero di Fini, non conseguente tuttavia nelle posizioni concrete che prendeva, era che il cesarismo berlusconiano chiudeva tutti gli spazi di confronto necessari perché il Pdl non si riducesse ad un feudo e le decisioni non fossero padronali. Quella di Fini era una crescente insofferenza che non riusciva a trovare uno sbocco, avvertendo sempre più intensamente che un rapporto politico non poteva essere inteso nei termini di fedeltà-infedeltà, osservanza-tradimento. Certo, all’ombra di Berlusconi, sotto le sue bandiere, dietro i suoi successi elettorali, gli incantesimi con quali trascina la gente, tantissimi hanno costruito e costruiscono le loro fortune politiche; molti di costoro sono stati strappati dal Sovrano all’anonimato ed alle loro modeste ambizioni e non è quindi meraviglia se inneggiano a Silvio, gli giurano eterno amore, sono lieti di essere il suo “microfono”. La folla dei beneficati, più che ad una idea politica, è devota ad una icona, ha il culto di una immagine, e non ha colpa loro se è lo stesso Sovrano che vuole così i suoi fedeli, se chiede una completa sottomissione. Ogni giorno vediamo, sentiamo, leggiamo, peana elevati al nostro Ceaucescu, e ve ne è anche chi come la nota sottosegretaria (che il Capo vedeva meglio in posizione “orizzontale”), avanguardista del berlusconismo, dichiara una fedeltà granitica al Cavaliere ed ammonisce tutto il quadrunvirato o quintetto a restare uniti, a difenderlo a spada tratta contro tutti gli attacchi velenosi. Se questa cintura protettiva che una particolare, abnorme, concezione della politica e del proprio ruolo di statista ha creato attorno a sé il Cavaliere, si dovesse sfaldare, se i suoi più diretti maggiordomi arrivassero ad avvertire che possono sottrarsi ad una cieca sottomissione, riguadagnare la libertà del proprio giudizio, è evidente che più che all’idea politica che si era intravista nell’avventura modernizzatrice berlusconiana, molti si sottrarrebbero ( tradirebbero) a imposizioni che hanno dovuto subire senza poter mai discute criticamente quello che il progetto stesso comportava. Fini ha reso eclatante la rivolta, l’abbandono, e la sua scelta appare come quella di un rinnegato: ha rotto “l’eternismo” di un legame che continuava a farne non un “cofondatore” ma un succube di un potere sovrano dispotico. Anche Fini tuttavia ha dovuto sperimentare quanto poco leale attaccamento vi era in quelli che in An costituivano lo staff dei suoi generali. Vicende che si ripetono! Nel commentare tempo addietro le riflessioni che Fini faceva sul “cesarismo” berlusconiano e quel che di politicamente abnorme questo comportava, escludevo che “fedeltà”, “infedeltà”, “devozione”, “tradimento” potessero ritenersi categorie proprie del giudizio politico; questi mi sembravano piuttosto termini di un vocabolario privatistico o chiesastico. O Berlusconi aveva fondato appunto una chiesa e l’adesione alla sua idea doveva essere intesa come una fede ? Di questa vicenda ipotetica ma possibile degli abbandoni di cui aleggia il sospetto nella stessa congrega berlusconiana, le descrizioni che ne vengono già (ante litteram) date sono appunto quelle che ne rimarcano i lati di un riprovevole allontanamento da colui dal quale si erano tratti grandi profitti. Ma c’è anche l’altro lato non trascurabile di un intreccio di rapporti basato solo apparentemente sulla condivisione di una comune idea politica, ma sostanzialmente poggiante sulla dipendenza da una soverchiante sovranità personale capace di ottenere il massimo consenso popolare. Sicuramente il triste destino degli autocrati è di andare incontro alla delusione ed alla amarezza di vedere via via, specie quando si profila un tramonto, assottigliarsi la schiera dei devoti, ma ciò se dipende in qualche modo anche dall’opportunismo e servilismo dei seguaci che tramite lui hanno fatto la loro fortuna politica o di altro genere, la causa principale è da cercarsi soprattutto in quella volontà padronale, intollerante e tirannica, che tiene tutti legati ai propri interessi e scopi.
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