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di SEBASTIANO ZIRPOLI
LA concezione della persona, in molte culture, è mediata dalle maschere che ogni specifica cultura prevede. Essa è dunque plasmata a seconda delle situazioni e può essere cambiata ad ogni cambio di status. Non è mai definita e, soprattutto, non rende conto della vera personalità del soggetto. Nello spazio vuoto tra la maschera sociale ed il volto, dove risiede la essenza vera del proprio io, trovano fertile alloggio l’insicurezza, il dubbio, l’incertezza quotidiana sugli atteggiamenti da tenere, sulle condotte da scegliere per conciliare le pressanti richieste sociali con le indispensabili “licenze di vita” cui ciascun individuo ambisce per ritrovare se stesso e le proprie intime ragioni esistenziali. Nelle stampe antiche la menzogna veniva rappresentata claudicante e con una maschera in mano. Il mentitore con il doppio volto: la persona doppia che nasconde, come ogni risvolto, la doppia intenzione di far credere il falso o ciò che non pensa sia vero. Il mentitore ha sempre il volto di un’altra persona. E’ fatale infatti che nello scoprire un volto si trovi sempre una maschera, che nello stesso tempo nasconde e surroga il volto vero quello conosciuto unicamente dal suo possessore. Nella lingua latina, persona, oltre ad indicare un individuo, era anche il nome della maschera dell’attore di teatro, che copriva tutto il capo lasciando, del volto, scoperti solo gli occhi. La maschera era diversa a seconda dei diversi caratteri da rappresentare o ‘impersonare’, ma gli occhi dell’attore – lo sguardo doppio della maschera – conferivano espressioni diverse alla stessa persona. E’ il motivo per cui Oscar Wilde – nel suo paradossale allarme per la Decadenza della menzogna – poteva dire che «una maschera racconta molto più di un volto». La “finzione” che ciascuno di noi mette in atto più volte al giorno per poter sopravvivere socialmente è una necessità che difficilmente può essere ignorata. Impieghiamo buona parte della nostra vita a costruirci una immagine personale adatta a tentare di realizzare le nostre progettualità, indispensabile per avere un “consenso” sociale quanto più proficuo possibile. Questa “maschera sociale”, sebbene rigida, deve consentire aggiustamenti e ritarature, a volte anche riconversioni, in funzione delle mutevoli vicende che fatalmente siamo costretti a vivere. La vicenda della famiglia Misseri di Avetrana ci porta a considerare un secondo piano della cosiddetta “finzione” un piano meno personale ma che attiene alle complesse dinamiche familiari, parlo di una “maschera familiare”, uno strumento collettivo votato a dare all’esterno una immagine perfetta. Una famiglia “complessa” quella dei Misseri dove c’erano tre donne-padrone ed un padre relegato al ruolo di comparsa all’interno di questa rappresentazione familiare. Niente di tutto ciò sarebbe trapelato all’esterno se non fosse accaduta la tragedia della morte della piccola Sarah Scazzi. Quella famiglia consegnava alla gente una maschera familiare “perbenista” fatta di sorrisi di circostanza, di presunti momenti domestici tranquilli e sereni proprio come tante se non troppe famiglie simili. Nel chiuso poi della loro bella casa si agitavano quotidianamente seri conflitti determinati da gerarchie anomale, da matriarcati anacronistici, da usanze ripescate nei foschi romanzi di appendice dell’800. Se è vero che il padre Michele mangiava da solo i resti della tavola approntata per moglie e figlie, se è vero che dormiva su una sedia a sdraio in cucina, se è vero che scappava alle prime luci dell’alba per trovare nei campi e nella natura quella libertà di azione così cinicamente soffocata all’interno delle mura domestiche, allora la maschera sociale di quella famiglia era un capolavoro di cesello e di artificio che avrebbe potuto competere con i grandi personaggi pirandelliani. In tutte le nostre famiglie esiste questo tipo di maschera che si indossa in occasione di arrivi di ospiti, che si racconta nelle relazionalità sociali di ogni giorno, che si fissa in foto e filmati a futura memoria. La realtà quotidiana poi, quella vissuta all’interno della famiglia, ci porta in scenari diversi che non devono essere per forza negativi o eternamente in disaccordo ma che raccontano di vissuti che alternano grandi affettività a estenuanti conflittualità. Ciascuno di noi, rientrando a casa, appende insieme al cappotto o alla giacca la sua maschera sociale e ridiventa finalmente se stesso, pregi e difetti inclusi, e così ci si ritrova finalmente “psicologicamente nudi” con conseguente allentamento di freni inibitori e convenzioni sociali. A volte, in occasione di litigi, è molto frequente prendere a riferimento famiglie vicine per indicare modelli da imitare, proprio perché di quelle famiglie si conosce soltanto la globale maschera sociale, fatta di sorrisi e di grandi elogi per se stessi. Forse cercare di migliorare i propri ruoli familiari attraverso la costante pratica della tolleranza e del buon senso potrebbe migliorare i rapporti interni dei nostri nuclei familiari e avvicinare di molto le realtà familiari “interne” alla “maschera” ad uso esterno in modo da rendere superflua questa distinzione e di conseguenza inutili e superflue le estenuanti recite quotidiane.
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