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di ANNA ROSA MACRI’
Soppresso. Il display è inequivocabile. Il treno delle 6.50 che deve portarmi a Paola in tempo per la coincidenza con quello che va a Reggio è stato soppresso. Nella notte dev’essere scoppiata la guerra e non me ne sono accorta. I treni non vengono impunemente soppressi in tempo di pace. A meno che non ci sia uno sciopero selvaggio. “No, no, nessuno sciopero”, allarga le braccia l’unico ferroviere temerario che s’immola al ragionevole linciaggio a cui si appresta la comitiva disperata di pendolari dell’alba lasciati miseramente a terra (fino a mezzogiorno non c’è nessun altro modo, se non pedibus calcantibus, se si è sprovvisti di macchina, per raggiungere Reggio). “Non prendetevela con me, si difende, lo so, c’è da vergognarsi a portare la divisa di ferroviere coi tempi che corrono. è che non è arrivato il materiale”. “Il materiale” in ferrovierese vuol dire semplicemente “il treno”. Non ci sono treni di riserva nei depositi, in caso di guasto o cattivo funzionamento, anzi a Cosenza non c’è più il Deposito del Materiale. Abolito, qualche anno fa, senza che nessuno o quasi se ne sia accorto. Così, se una carrozza, o una macchina, ha un problema, e i problemi sono continui, perché come si dice in ferrovierese, “il materiale è obsoleto”, non c’è via d’uscita: si abolisce la corsa e così sia. Provo ad andare a Reggio l’indomani col treno diretto delle 14.10. Questa volta il display mi dice che tutto è regolare, faccio il biglietto e poi lo slalom per la caccia all’unica macchinetta funzionante per la vidimazione (achtung!: i controllori, a fronte dei disservizi galoppanti son diventati spietati con chi è senza “certificato di viaggio”) e salgo in carrozza. Il treno è affollatissimo. E’ quello che porta “direttamente” a Reggio (vuol dire senza cambio a Paola, toccando, lungo il Tirreno, ben undici stazioni). Carica studenti, insegnanti, impiegati. Non si ha idea, se non si frequentano i treni, di quale circolarità interna ci sia in questa regione. Il fenomeno è recente, sono soprattutto le università ad averlo generato, e sta cambiando la fisionomia delle “Calabrie”. Questo, poi, è il treno dei pendolari che tornano a casa. Beh, “ritorno a casa” si fa per dire, perché siamo tutti a bordo, passano i minuti. cinque, dieci, quindici, e il treno non parte. Partono le telefonate, invece, una litania: faccio ritardo, anche oggi, sì, anche oggi; non so quando arrivo, il treno ha problemi; non aspettarmi, qui non si capisce niente. L’attesa è scandita dall’ansimare altalenante delle porte, aperte e chiuse a comando dalla cabina di pilotaggio. E’ evidente, non vanno. I viaggiatori scendono preoccupati al capezzale del “materiale” difettoso, danno consigli e suggerimenti, fanno il tifo e mandano improperi, sospirano e smadonnano, fianco a fianco con i ferrovieri, a dire il vero più preoccupati di loro (questa volta i poveri non si fanno la guerra): ne va dell’orgoglio della divisa, e anche di una categoria, fino a ieri la vera classe operaia e tradizionalmente progressista di una Calabria disindustrializzata, e anche del loro futuro: «Se continua così», mi dice uno di loro, «dai treni ci scendiamo definitivamente e tutti a casa». Mezz’ora dopo, l’annuncio è perentorio: signori, non si parte, il treno è soppresso. Soppresso? Ma non sarò io a portare sfiga alle ferrovie: due treni in due giorni fanno una prova! “No no, tranquilla, è tutto regolare: in media ne vengono soppressi due a settimana, mi consola una signora che fa la segretaria in un Professionale di Cosenza e deve tornare ad Amantea, con oggi speriamo di aver saldato il conto”. Bella consolazione. Guardo in faccia i miei compagni di viaggio interruptus: la loro impotenza è rassegnazione, la loro amarezza è malinconia, la loro stanchezza è cedimento. Sono ancora una volta stupita dalla pazienza dei calabresi e mi domando una volta ancora che cosa freni la loro rabbia. Non protestano, mugugnano; non alzano la voce, si lamentano. E penso alle piccole comitive raggrumate lungo il tragitto – Amantea, Lamezia, Vibo-Pizzo eccetera eccetera – che mentre noi siamo qui a organizzare viaggetti low cost a bordo delle automobili messe a disposizione dai volontari, stanno inutilmente ad aspettare, insieme al treno che non arriva, la sicurezza di un servizio pubblico decente che restituisca loro il senso di pagare le tasse, di non lasciare la macchina in divieto di sosta, di buttare i rifiuti nei cassonetti, di essere, insomma, cittadini normali di un paese normale. Questa volta il patto onesto tra loro e lo Stato, come tante altre volte qui al Sud, è lo Stato ad averlo infranto: quando non funzionano i treni, le scuole sono sovraffollate e senza mezzi e gli ospedali vuoti a perdere, è la stessa ragione sociale dello Stato a traballare. Un ferroviere alla Pietro Germi, sindacalista della Cgil, “ma per carità, non scriva il mio nome, che coi tempi che corrono.”, mi spiega che la faccenda parte, quella sì, da lontano, da una politica regionale (di destra e di sinistra) miope e clientelare: “la Calabria, insieme al Molise, dice, è l’unica regione italiana a non investire nulla sul trasporto su rotaie. Tutto – tutto! – viene trasferito alle compagnie dei pullman, che, guarda caso, in Lombardia, che ha dieci milioni di abitanti, le conti sulle dita di una mano, qui, che gli abitanti sono due milioni, sono decine e decine”. Sostenerle equivale a voti “di prossimità”, calcolabili e controllabili. Impiegare risorse sulle ferrovie vuol dire agevolare un servizio pubblico che non ha ritorno in termini di consenso e che i cittadini percepiscono come un loro diritto, per di più erogato dallo Stato. Invece la Regione ha forti responsabilità: “E’sparito dall’orario ferroviario dei calabresi, mi dice sottovoce il ferroviere, un certo treno che da Praia a Mare arrivava fino a Cosenza, passando naturalmente per Paola. Partiva da Napoli, però, e la Regione Campania ha deciso di fermarlo ai suoi confini, dato che la Calabria non contribuiva in nulla al suo mantenimento”. Dev’essere per questo che a giorni sarà abolito il Tamburello, una specie di metropolitana leggera che da Rosarno raggiungeva Melito Porto Salvo, facendo di Reggio (che di metropolitano ormai ha solo, una beffa al buon senso, il nome) davvero il capoluogo-calamita di tutta la fascia costiera, jonica e tirrenica. D’inverno era pieno di pendolari e d’estate stracolmo di turisti, come il suo cugino nobile che tocca, e che nessuno osa toccare, con baricentro Genova, le costiere di Ponente e di Levante. Adesso non c’è più. Si chiamano prove tecniche di federalismo, e tremano le vene ai polsi a pensare che sarà di questa regione, quando, conclusa l’operazione-ospedali e quella gelminiana di attacco massiccio alla scuola, la missione sarà conclusa: per mancanza di materiale la Calabria sarà soppressa. Saremo arrivati, prima ancora di partire. Alla disperazione, direbbe Giorgio Caproni.
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