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di VITO TETI
«Non si legge l’ora all’orologio altrui, ma al proprio». È eccessivo scomodare Edmond Jabès per parlare, prima della partita con la Nuova Zelanda, dell’attesa che vivono i calciatori, l’allenatore, e con loro i milioni di tifosi? Forse, ma quello dell’attesa, nel calcio come nella vita, è un tempo vissuto, immaginato, inventato, a volte tormentato, prima dell’evento cruciale e decisivo che deve accadere per poi scoprire che l’attesa è interna all’evento: racconta un tempo in cui siamo creatori, inventori, artisti, padroni dell’evento. Attendere, tendere verso qualcosa, mette in moto tutta la nostra fantasia, la nostra libertà, la nostra idea di futuro. I poeti e i filosofi dall’antichità ai nostri giorni hanno scritto versi e pagine memorabili sull’attesa, considerazioni bellissime per farci riflettere sulla “bellezza” del “prima” ma anche sul disincanto del “dopo”. L’attesa è una condizione della modernità, come la nostalgia, l’esilio, l’erranza. I preparativi e l’attesa della festa sono più belli della festa stessa, ha cantato Leopardi: figuriamoci se poi, invece della “festa”, dovesse arrivare il “lutto”! «Attesa, intesa», scrive ancora Jabès, pensando alla condivisione, ma nel “picciol luogo”, nel paese cosmo, dove vedo le partite, l’aforisma vale solo in parte. L’intesa assoluta viene raggiunta facilmente sul menù dopopartita, per il resto, nella piazza della domenica, c’è il disaccordo più totale: su Lippi, sulle convocazioni azzeccate, sulla formazione. I calciatori della Nuova Zelanda sono stati adottai dai sudafricani. Sono andati ad alloggiare e ad allenarsi nei luoghi della miseria e della povertà. Sono simpatici: peccato che giochino contro l’Italia. «C’è la Nuova Zelanda. L’Italia degli umili cerca i gol», leggo su “La Repubblica”. Avevo immaginato che gli umili fossero i neozelandesi e noi i campioni del mondo, osannati, presuntuosi, strapagati. I neozelandesi sono dilettanti e due di loro non giocano nemmeno in una squadra di Club e però ci ricordano che tutto è possibile, ricordandoci la sconfitta con la Corea del 1966, un “dramma” che torna come un incubo da scacciare periodicamente. Comincia la partita. I calciatori azzurri giocano con il lutto al braccio per la morte di Rosato, eroe dei mondiali del 1970 e di Italia-Germania. I più grandi non ne sanno nulla e anche noi lo ricordiamo appena. Bisognerebbe essere cauti nell’adoperare per le partite, come per le battaglie o i personaggi pubblici, la parola “storia”. «Non possiamo avere paura della Nuova Zelanda», dice un telecronista, ma i neozelandesi iniziano duri e senza soggezione, anche fallosi. Zambrotta prende una brutta gomitata attorno al quinto minuto e Caressa su Sky ricorda che i neozelandesi hanno già rotto tre setti nasali di calciatori. Un minuto dopo rompono i nostri sogni. Un gol per distrazione, per sfortuna, forse in fuori gioco, ma siamo sotto. Si materializzano i fantasmi del passato. Di nuovo in salita, sempre in salita. Si teme il peggio. L’Italia è bloccata, spaventata, non concretizza. Arriva il calcio di rigore, assegnato forse con una certa generosità. Peter Handke, in un romanzo, Wim Wenders in un film, hanno raccontato la paura del portiere prima del calcio di rigore. Francesco de Gregori ha cantato la paura di chi batte il calcio di rigore. Esiste anche la malattia di chi osserva il calcio di rigore. L’attesa che lega l’attimo in cui il calciatore poggia il pallone sul dischetto, quello della rincorsa e del tiro, e quello in cui ci si rende conto che il pallone è entrato in porta o meno, mettono a dura prova lo spettatore. E’ un’attesa che dura un secolo e non è il caso di citare il repertorio di scongiuri e scaramanzie varie che ogni tifoso che si rispetti sa mettere in questi casi. Il pallone sembra camminare per conto proprio. Non conta la bravura, essere campione, conta la freddezza ed Eupalla. A Iaquinta Eupalla vuole bene. Nel secondo tempo arrivano i cambi, non cambia il risultato. Ci proviamo di più, ma sbagliamo molto. In due partite non abbiamo fatto nemmeno un gol su azione e alla fine bisogna ringraziare la fortuna se un calciatore neozelandese ha sfiorato il palo. Adesso bisogna, assolutamente, vincere. Continua l’attesa. In fondo l’Italia è la nazione delle attese e gli italiani sono bravissimi nell’attendere, nel rinviare sempre, nel dire sempre domani, nel cercare di risolvere all’ultimo secondo. Siamo il popolo dell’emergenza. Abbiamo altri quattro lunghi, estenuanti, giorni di attesa, in cui sapremo dire di tutto, recriminare di tutto, passare dalla convinzione che sarà dura e che siamo fuori alla certezza che ce la possiamo fare, alla speranza che ce la dobbiamo fare. «Ciò che attende di vivere si scrive: ciò che ha cessato di attendere è scritto», ricorda ancora Jabès. Forse scriviamo per il bisogno, l’illusione, la speranza di non fare accadere quello che è già scritto. Forse scriviamo, anche di calcio, per non “morire”, per annullare il tempo, per ingannare l’attesa, per ingannare la vita.
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