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di FRANCESCO CANNIZZARO
ERA una sera di molto tempo fa, tornai a casa dopo una passeggiata con gli amici pensando di trovare come tutte le sere la tavola apparecchiata e i miei genitori, con le facce stanche per la dura giornata di lavoro e gli occhi severi per il mio ritardo, chiedermi se avessi fatto i compiti. Aperta la porta trovai invece la casa piena di gente che si muoveva in modo convulso, un’atmosfera pesante e lì, al centro, mia madre che sembrava ancora più piccola in mezzo a quella confusione.
Non chiesi niente, non dissi nulla, filai in cucina a cenare e stetti lì seduto a tavola fino a che non andarono tutti via. E’ così che hanno educato me e i mie fratelli, Camillo e Caterina, i bambini non si devono impicciare delle cose dei grandi. Quando sentii la porta di casa chiudersi alle spalle di tutta quella gente ed un surreale silenzio, uscii ed andai in soggiorno dai miei genitori, vidi mio padre affacciato alla finestra e mia madre seduta al tavolo con la testa tra le mani. Mi sedetti di fronte a lei, la guardai in silenzio con viso interrogativo, lei alzò la testa e mi guardò negli occhi. Cercarono di spiegarmi che le persone che avevo visto a casa erano commissari di polizia, ufficiali dei carabinieri e magistrati, colleghi di mia madre. Tutti loro si sarebbero dovuti occupare della nostra sicurezza, da quel giorno la nostra vita sarebbe cambiata, per sempre, ma – mi dissero – “stai tranquillo non c’è nulla di cui preoccuparsi”. Era la primavera del 1993, di lì a poco una ragazza mia coetanea sarebbe scomparsa nel nulla creando sconcerto in una piccola e tranquilla cittadina di provincia. Allora avevo solo 14 anni e ancora non sapevo quanto queste due cose avrebbero cambiato la mia vita. C’era una cosa che sapevo già da allora, che lo sguardo di mia madre nei miei occhi mi aveva riempito di orgoglio, quella donna giovane e piccola stava rischiando la sua vita e quella della sua famiglia per fare il suo dovere, come prima di lei avevano fatto altri suoi colleghi ben più illustri che pagarono con la vita il loro senso del dovere e come io fino ad allora avevo visto solo nelle fiction. Pensai che se c’era qualcuno che ce l’aveva così tanto con lei forse il suo dovere lo faceva onestamente e bene. Il giorno dopo andai come sempre a scuola, intorno a me il chiasso dei miei compagni e i rimproveri dei professori quasi a farmi pensare che quello che mi avevano detto i miei genitori fosse come sempre vero.”non c’è nulla di cui preoccuparsi”. A dieci minuti dalla campanella che avrebbe segnato la chiusura della giornata di scuola entrò in classe il preside chiedendo al professore di farmi uscire. Nel corridoio c’erano due uomini che venivano verso di me, mi dissero i loro nomi, forse videro un po’ di paura nei miei occhi e allora uno dei due tirò fuori un tesserino con il distintivo della polizia, mi dissero che mi avrebbero aspettato fuori e che mi avrebbero accompagnato a casa. Oggi ho 30 anni, di tempo ne è passato, molte cose sono cambiate. In 16 anni si sono succeduti ritrovamenti di tritolo destinati ad essere messi sotto casa mia, tentativi di attentati le cui responsabilità sono state individuate dall’Autorità Giudiziaria. Carabinieri e poliziotti che andavano e venivano da casa mia, intensità della vigilanza che variava al variare della misura dei pericoli e sempre quella donna, quella mamma a lottare con il codice di procedura penale tra le mani. E ci può stare che qualcuno un giorno accusi di reati orribili quella donna che sta indagando su di lui, anche se lo fa solo per allontanare da sè i sospetti. Come ci sta che a quella donna vengano tolte le indagini che sta conducendo e che sulle accuse a lei rivolte indaghino a fondo e per ben due anni due pubblici ministeri investiti dell’indagine conclusasi con una netta e definitiva archiviazione che stigmatizza in modo anche violento le ragioni delle accuse arrestando e chiedendo ad un Tribunale di giudicare quel collaboratore per i medesimi reati. Quello che fa male alla donna ed ai suoi figli è vedere molti anni dopo quello stesso collaboratore dichiarato colpevole di molti reati con sentenze passate in giudicato, rivolgere le stesse accuse archiviate dai magistrati in diretta tv, in prima serata ed in un programma del servizio pubblico. Una specie di realtà capovolta dove i buoni diventano cattivi e viceversa. Quello che fa male alla donna ed ai suoi figli è dover pensare che tutti i loro sacrifici – di vita prima che di lavoro – non siano evidentemente degni del rispetto della gente. Quello che fa male è vedere una donna che ha perso una figlia in maniera tragica scagliarsi contro chi ha sacrificato la propria vita, anche rischiandola, per la ricerca della verità sempre e comunque, con volontà e dedizione. Mi chiedo perché. Questo è il motivo per cui la signora Filomena, che scrive e parla da mamma sofferente e disperata, merita la risposta di un figlio. Come fa mia madre a guardare negli occhi me e miei fratelli? E’ questo che si chiede la signora Filomena? Tengo a dirle innanzitutto una cosa: anche noi ogni giorno non facciamo che chiedere a Dio prima che agli uomini Verità e Giustizia per Elisa. Sembrerà assurdo ma le nostre vite sono legate allo stesso destino: la Verità, quella vera, e la Giustizia, quella giusta, quella in cui mia madre mi ha insegnato a credere malgrado tutto, daranno pace e serenità a due madri, e serviranno a ristabilire il giusto ordine delle cose quello a cui chiunque sia in buona fede dovrebbe anelare. Gli occhi con cui quel Pm guarda i suoi tre figli sono gli occhi di una donna che non ha nulla da rimproverarsi per quello che ha fatto nella vita, gli occhi di chi ha insegnato tanto ai suoi figli, con uno stile di dignità ed onestà, sempre. Sono gli occhi dolci e giusti di una madre che è l’orgoglio di noi tre figli, gli stessi occhi con cui la signora Filomena avrebbe guardato Elisa se qualcuno non gliela avesse atrocemente portata via. Comprendo il dolore degli altri, non reagisco all’aggressività nei confronti del magistrato, ma non posso accettare che qualcuno, pur nella tragedia, possa confondere il senso del rapporto che abbiamo con nostra madre. Continuiamo a guardarci negli occhi, come abbiamo sempre fatto. E di questo io, Camillo e Caterina siamo fieri.

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