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di FRANCO CIMINO
“Un partito a me, un partito a te. Se il partito non c’è, il partito me lo faccio da me.” Sembra ormai questa la pratica più diffusa nella politica. Sappiamo ormai bene da quale situazione e quale cultura provenga. E da quale periodo della recente storia italiana. La memoria corre veloce al 1990-‘94, a tangentopoli, ai giudici di mani pulite, che segnarono la via giudiziaria della fine dei partiti tradizionali e l’avvio di un nuovo corso della politica in cui partiti finti si costituirono come podio per proclami di pochi capi e come comitato elettorale per la promozione di personale politico riciclato dalla vecchia politica. Ovvero dalle seconde e terze file di un sistema portatosi all’amara fine che conosciamo, i cui prodromi si collocano ben prima dell’azione giudiziaria. Insomma , portaborse e mediocri figure, dipendenti di aziende private e furbi imprenditori sempre con un piede di qua e uno di là, rappresentanti acquiescenti di categorie e associazioni sociali e sindacali. I partiti tradizionali, nati come forza organizzata per l’affermazione di ideali e su programmi di governo su di essi impostati, cedono il passo a nuove organizzazioni partitiche il cui principale punto di interesse è quello di realizzare il consenso per la elezione di persone sensibili ai desiderata dei capi. Gli ideali non c’ entrano perché non ci sono. Gli statuti fotocopiati dai tanti in circolazione restano nel cassetto dei notai. E le regole, misconosciute da aderenti e da elettori non vengono mai applicate. Gli organi rappresentativi e statutari sono pletorici, assemblee oceaniche di duecento, trecento persone, impossibili da convocare e ancora più impossibile farli discutere per la elaborazione di una linea politica autonoma e condivisa. Al centro, come nelle periferie, chi dirige un partito diviene il partito stesso, rispetto al quale non può esistere dissenso. Il dissenso, forza che anima la democrazia rappresentativa, energia contro qualsiasi forma di potere, è considerato oggi offesa all’immagine del partito, violenza al corpo sacro del capo, oltraggio all’elettorato. Un regalo al nemico. Una violazione dell’unico vincolo riconosciuto, quello tra l’eletto e l’elettore. Il politico, nel nuovo contesto, sempre più si identifica nell’eletto nelle istituzioni, colui il quale attraverso di esse assume in qualche modo un’attività di governo. La politica dunque non è più quell’antica arte che si sviluppa sul fine equilibrio tra maggioranza e minoranza. Tra governo e opposizione. Tra chi decide e chi controlla. Oggi la politica è il potere. La sua conquista, a qualsiasi condizione. Il suo mantenimento, senza o contro le regole che pure esso stesso si è dato. Se questa è la nuova politica è evidente che i partiti non servono quali strumenti distintivi di prolifica diversità. Servono invece per conquistare il potere e gli spazi istituzionali per chi li “occupa”. A Roma, come in sede locale. La lotta, pertanto, non è per la linea politica o per un programma, attraverso i quali successivamente realizzare le alleanze. E’ esclusivamente lotta per la conquista del potere. Il potere è la politica. I partiti sono la politica. E chi li dirige , diventano le persone che lo incarnano. Se i partiti sono diventati quel che sono, tutti i partiti sono uguali. Se il loro rapporto è esclusivamente con il consenso elettorale, i partiti sono comitati per le elezioni, luoghi chiusi, abitati solo da simpatizzanti di questo o di quel dirigente. Inaccessibili a quanti vorrebbero che fossero cosa diversa, palestra di elaborazione di idee, di confronto , anche duro, tra tesi e orientamenti diversi. Il partito è diventato un contenitore, una casella postale, un supermarket per gente che non ha patria, non ha storia politica e non ha ideali. Gente che ha come unica ambizione quella di essere “contenuta” ora da questo, ora da quel partito per essere lanciata in un allettante competizione. Gente che possiede solo quella tessera di gratuito accesso al pendolino della politica. E qualche volta una forte famiglia alle spalle, ovvero più famiglie nel mondo poco trasparente che raccoglie fedeltà improprie e giuramenti infedeli. E anche tanti soldi, messi in proprio o da chi muove grandi interessi. Questa forma di utile mediazione non si preoccupa dei militanti, di quelli che si sono forgiati sulle idee e che ancora rimangono legati agli ideali, e neppure della sensibilità dei simpatizzanti che si vedono imporre figure estranee alla loro storia. Si preoccupa soltanto di prendere i voti per la lista. Il come, con chi, il se resta e per quanto tempo l’ospite, non interessa. Contano solo le elezioni. Conta chi le vince. Perché chi le vince comanda oggi e decide per il futuro. Ma, in questo schema, vorrebbe contare anche chi non vince ma detiene un potere numerico in termini di voti ricevuti . Costoro , contando i propri voti vorrebbe essere immediatamente e adeguatamente ricompensati. Si delinea per questa via la figura di partiti quali sommatoria dei voti riportati da ciascun candidato. Le idee non contano. Le regole neppure. Il buon senso men che meno. La morale per nulla affatto. Non contano gli altri. Quelli che lottano e votano. Che non chiedono mai e sperano sempre. Che la politica cambi. Che il loro partito ritorni. A sconfiggere la miseria di questa politica.

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