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di LUCIA NARDIELLO
RIONERO – Quarant’anni fa un uomo aveva una vita. Quattro figli, una famiglia, amici, lavoro. Una vita come tante, che non è mai stata vissuta. Tonino Potenza, e non è un soprannome ma un errore di anagrafe, abitava a Rionero in Vulture. Un paese che ha sempre voluto raggiungere i 15 mila abitanti, dove ci si conosce un po’ tutti. Tonino: alto di statura, robusto, capelli mossi e neri così come gli occhi, fa il manovale. Ha un fratello di dieci anni più piccolo che si chiama finalmente Antonio come desideravano i genitori. La sua storia è ferma a mercoledì 17 dicembre del 1969. Un giorno iniziato come tanti. Il via vai quotidiano, le solite faccende, il lavoro da sbrigare per mantenere la numerosa famiglia composta dalla moglie, dalle due figlie femmine, la più grande di nove anni, e dai gemelli, un maschietto e una femminuccia. Quel giorno Tonino deve andare a un funerale. Si tratta di un cugino della moglie. All’epoca non c’erano furgoni a portare i fiori, la bara era seguita da una processione di corone e cuscini trasportati a braccia da parenti e conoscenti. Tonino portava, insieme ad un’altra persona, proprio una corona. Per l’occasione aveva indossato un abito nuovo. Un particolare non trascurabile se si pensa che nel luogo in cui si era cambiato d’abito aveva lasciato, oltre i vestiti abituali anche gli effetti personali, compresa la carta d’identità e il coltellino da lavoro che aveva sempre con sè. Finito il funerale è quasi sera e Tonino va in un bar. Secondo la scaramanzia popolare subito dopo aver partecipato ad un funerale non si va a casa di nessuno per non “portare il lutto”. Il bar in questione oggi non esiste più. Si chiamava bar Vultur. Dal cimitero cittadino a via Marconi, dove si trovava il bar, la strada non è tanta e Tonino passa lì la serata in compagnia di amici. Questo è l’ultimo posto certo in cui è stato visto. Dopo sono solo voci. Tonino esce dal bar Vultur per andare a casa nel rione Costa. Tagliando per i vicoli si arriva in poco tempo. Prima di andare, però, verso le 22 chiede un passaggio al proprietario del bar. Ma la risposta è negativa. Più voci dicono di aver visto Tonino allontanarsi in compagnia di un anziano che abitava lì vicino. Altri dicono di averlo visto salire in un auto. L’unica cosa certa è che Tonino a casa non è mai arrivato. Cosa sia successo davvero rimane un mistero, allora come oggi, a più di quarant’anni dalla sua scomparsa. La mattina del giorno dopo suo fratello Antonio è a casa del padre per portarlo a San Giovanni Rotondo. Il padre di Tonino e Antonio è malato di cuore e già in una visita fatta a Bari gli avevano diagnosticato sei mesi di vita. Quella mattina Antonio è lì per esaudire un ultimo desiderio del padre, quello di andare nell’ospedale di Padre Pio. Mentre sono lì che si preparano arriva la figlia di Tonino, la più grande, che chiede ai nonni se abbiano visto il papà. La preoccupazione non è tanta, si pensa che abbia deciso di andare in campagna o dagli animali che si trovano in una zona all’epoca un po’ periferica. Antonio parte per San Giovanni Rotondo. Al momento la cosa che sembra più urgente sono le condizioni del padre malato. Il giorno dopo Tonino manca ancora. Sono mille i pensieri che vengono in mente, “magari era andato a fare un servizio” o “ha incontrato un amico”, la speranza è che varchi la porta da un momento all’altro. Antonio va nei posti frequentati dal fratello, dagli amici, dai parenti, ma non lo trova. Cresce la preoccupazione che alla fine vince la vergogna di andare a denunciare la sparizione ai carabinieri. Le indagini prendono piede da subito “all’acqua di rose” come racconta Antonio che dice «ho chiesto che venissero usati i cani per cercare le tracce fresche di mio fratello, ho detto che ero disposto a pagare quanto sarebbe stato necessario». Ma niente. I carabinieri replicano seccati che i cani li avrebbero chiamati loro qualora ce ne fosse stata la necessità. I cani non arrivarono mai. Le tracce si persero per sempre. Diciassette giorni dopo la sparizione di Tonino, il quattro gennaio del 1970, muore il padre. «I carabinieri non ci dicevano niente – ricorda Antonio – io continuavo a fare le indagini da solo senza trovare nulla che potesse darmi una speranza». Mesi dopo le indagini languono. Ad un certo punto una donna di Melfi afferma di aver visto Tonino nella città federiciana. Dice ai carabinieri di averlo riconosciuto ma di non aver parlato con lui. Per le forze dell’ordine la vicenda è chiara: allontanamento volontario. Tesi sposata basandosi solo sulle dichiarazioni di una donna che dice di averlo visto. «Ci dissero che poteva fare quel che voleva finchè non commetteva un reato». Una doccia fredda per Antonio che sa la cosa impossibile. «Mio fratello – dice – era una persona solare, quello chiuso ero io. Era benvoluto da tutti, ancora oggi quando passo con mio figlio e incontriamo suoi datori di lavoro, loro ricordano quanto Tonino fosse un grande lavoratore. Una persona semplice che non avrebbe mai abbandonato i suoi figli, non sarebbe mai andato via così». Senza contare il fatto che Tonino non aveva nulla con sè: né soldi, né documenti, né abiti. Un po’ strano per un allontanamento volontario. Antonio non si dà pace, pensa da subito che suo fratello sia stato ucciso. «Un uomo da solo non avrebbe potuto tendergli un agguato, Tonino era robusto e alto, credo che siano stati almeno in due». Questa è la sua ipotesi. Il fatto strano arriva a nemmeno un anno dalla scomparsa. La moglie di Tonino, che a causa della tragedia aveva anche avuto un posto come bidella all’asilo comunale per il mantenimento dei figli ci rinuncia per trasferirsi a Milano. Ma non da sola. Va a convivere con un uomo di trent’anni più grande di lei anch’esso sposato. Porta con sè anche i bambini che, sei mesi dopo l’improvviso trasferimento, scendono per un po’ dalla nonna. «Erano strani – ricorda Antonio – alle domande non rispondevano mai, sembravano impauriti». I bambini ripartono per andare dalla mamma e da allora le tracce si perdono. La moglie non ha più avuto contatti con la famiglia del marito scomparso, non ha più voluto sapere nulla della sua sorte. Essendo a Milano, poi, non è mai stata sottoposta ad un interrogatorio come invece è successo ad Antonio, e alle persone collegate, più volte nel corso degli anni. Una vicenda che lascia molto da pensare. Gli interrogativi di Antonio sono tanti. Perché la donna va così lontano? Perché non è preoccupata per le sorti del marito? Perché non è stata interrogata pur essendo la moglie? Quesiti aperti che non trovano risposta. «Negli anni abbiamo fatto di tutto ma nessuno ci ha mai ascoltati – dice Antonio -solo una volta è uscito un articolo sull’Unità». Antonio è una persona umile e gentile di una famiglia modesta. Mentre racconta di suo fratello, il suo unico fratello, gli occhi si riempiono di lacrime amare. Il suo viso è segnato da tanta sofferenza, da troppi bocconi amari buttati giù per forza. Delle dieci gravidanze avute dalla mamma solo loro due erano sopravvissuti: Tonino e Antonio. La mamma è morta nel 2000, sconvolta dal dolore, lacerata dalla perdita, dal non poter andare a mettere un fiore sulla tomba del figlio. «Mamma non si è mai rassegnata – prosegue Antonio – l’abbiamo portata anche da alcuni medium che puntualmente ci confermavano la morte di Tonino. Per lei il colpo più brutto in tutta questa vicenda è stato quando i figli di Tonino sono tornati a Rionero per chiederci il consenso ad ottenere il certificato di morte presunta». Antonio ha sempre lottato per avere un po’ giustizia per il fratello. Nel 1995 ha anche inviato una raccomandata a “Chi l’ha visto?”, a testimonianza ci mostra la ricevuta. «Non ci hanno mai fatto sapere niente. L’unica cosa che chiedo è di sapere dove sono i resti di mio fratello», dice tra la rabbia e la rassegnazione di chi ha sperimentato sulla propria pelle che la giustizia non è per tutti. «Basterebbe una telefonata anonima, una lettera inviata ai carabinieri, a un giornale, a me, anche solo con un indirizzo. Perché sono convinto che qualcuno sa».
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