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di BATTISTA SANGINETO
Se un celebrato detective come Martin Mystère viene in Calabria vuol dire che deve esservi stato perpetrato uno di quei delitti “che la scienza ufficiale non prende in considerazione e che non sono stati razionalmente risolti”. I suoi creatori dicono che Martin Mystère e Cosenza ma dov’è il fumetto? segue dalla prima che Mystère “non ha clienti che si rivolgono a lui per proporgli un caso; non esegue indagini a pagamento o su commissione, ma entra in azione soltanto se l’argomento lo interessa in modo particolare” (pp. 8-9). Nel caso di cui voglio parlarvi deve aver fatto un’eccezione perché la Provincia di Cosenza ha finanziato l’archeologo Mystère per indagare sul mistero della tomba e del tesoro di Alarico. L’assessorato alla cultura della Provincia ha commissionato un libretto, di una quarantina di pagine, agli autori del celebre fumetto per ricordare solennemente la storia di Alarico e del suo tesoro. Prima di esserne entrato in possesso (l’albo non è in vendita), pensavo, speravo, che si sarebbe trattato di una storia fantastica nella quale il protagonista avrebbe cercato di far luce, nel suo modo fumettistico, sulla vicenda alariciana. Non è così, purtroppo. Il problema è che le quaranta pagine sono occupate, quasi tutte, da riassuntini pseudo-scientifici che hanno tutta l’aria di esser presi con il “copia e incolla” da Internet, traboccanti, per di più, di strafalcioni ortografici (per esempio a p. 17 si legge “il re visigota” , ma anche a p. 20 invece di “Das Grab im Busento” si legge “Der Grab im Busento”) e di errori storiografici (per es. a p. 20 non si attribuisce a Jordanes la sua opera “De origine actibusque Getorum”, sbagliando, peraltro, anche la desinenza dell’ultima parola che è “Getarum”, e non “Getorum”). La parte conclusiva di questo albo speciale, “Da Consentia a Cosenza”, forse non curata dagli autori del fumetto, avrebbe voluto essere un compendio di storia della città, ma è solo un concentrato di sbagliati o approssimativi luoghi comuni sulle vicende storiche antiche e recenti. Un esempio per tutti, a proposito della colonizzazione augustea che, secondo gli autori di questa parte dell’albo, avrebbe delimitato “i confini del suo agro in duecento iugeri” (p. 36). Pur non volendomi dilungare sull’interpretazione di una fonte letteraria problematica come il “Liber coloniarum” dalla quale è attinta questa notizia, vorrei sottolineare quanto possa esser stravagante questa lettura se si pensa che duecento iugeri equivalgono a 50 ettari e cioè al possedimento medio di un qualunque proprietario terriero dell’epoca. La fonte dice, in realtà, che l’“ager”, il territorio di “Consentia”, era diviso in centurie di duecento iugeri ciascuna. Dopo aver compulsato tutto l’albo mi sono chiesto dove fosse la storia a fumetti. Il fumetto non c’è, ci sono solo alcune tavole, una ventina in tutto, nelle quali sono raffigurati i personaggi della storia antica e, persino, di quella contemporanea. Un ben corrivo prodotto, insomma. Perché la Provincia lo ha commissionato? Perché hanno pagato, immagino, il prodotto senza neanche controllarlo? Eppure mi risulta che hanno come consulenti, o come responsabili di progetti, alcuni miei colleghi archeologi che avrebbero potuto, forse, correggere questi errori grossolani. Nell’amministrazione provinciale, nell’assessorato provinciale alla cultura devono aver pensato che, “malgré tout“, sarebbe stato imperdonabile lasciare che le celebrazioni di Alarico le officiassero solo gli amministratori del Comune di Cosenza. Hanno voluto, a tutti i costi, concorrere a commemorare anch’essi il re barbaro che ha portato morte e distruzione in tutta la Penisola, ha saccheggiato e distrutto Roma ed in onore del quale, alla sua morte, sono stati trucidati centinaia di antichi cosentini. Ci risiamo, direte voi. Sì, purtroppo, ci risiamo. Riassumo la vicenda per chi non conoscesse la versione dei fatti come ci è stata tramandata dalle fonti letterarie antiche in nostro possesso, Jordanes e, poi, Paolo Diacono. Alarico, dopo aver saccheggiato e distrutto Roma e trucidato i suoi abitanti, si dirige, con il tesoro depredato nella capitale dell’impero, verso l’Africa. Dopo aver messo a ferro e a fuoco le terre attraversate, nei pressi di Cosenza muore di morte improvvisa ed i goti, secondo lo storico ed apologeta goto Jordanes, raccolgono “una schiera di prigionieri in catene, scavano in mezzo all’alveo il luogo della sepoltura, tumulano Alarico nel centro della fossa con molte ricchezze, riportano il fiume nel suo alveo e, affinché il luogo non fosse riconosciuto da alcuno, uccidono tutti gli scavatori”. È evidente che gli scavatori in catene, poi trucidati, erano cosentini del 410 d.C., perchè i barbari, per esser più liberi di combattere, non avevano di certo attraversato l’Italia portandosi appresso prigionieri. A chi sembra che il Comune e la Provincia di Cosenza abbiano, quindi, motivo di commemorare o di celebrare l’eccidio di antichi cosentini? In un’altra città, in un’altra regione quella data sarebbe stata ricordata come una delle più luttuose e sciagurate della storia cittadina e regionale. In Calabria no, i barbari massacratori vengono onorati oppure ci si autocertifica come torturatori e crocefissori di Cristo. Perché i calabresi non riescono a crearsi, ad inventarsi una identità positiva? La risposta, le risposte sono molte e complesse. Potremmo iniziare col dire che fino al secondo dopoguerra, ed oltre, erano state le élite sociali e culturali a riferirsi alle antichità classiche in un continuo e creativo riconoscimento di figure simboliche e di archetipi alti. Le creazioni identitarie, perché di questo si trattava, hanno comportato la rimozione di interi periodi storici e l’esaltazione trasfigurante di quelli che si ritenevano più consoni all’ideal-tipo cui ci si riferiva. Erano, in sostanza, invenzioni ma, almeno, erano ispirate a modelli di alto livello culturale e morale. Nell’ultimo trentennio, invece, le classi dirigenti italiane, e calabresi in particolare, sono formate, per la maggior parte, da piccoli borghesi (cfr. i classici Enzensberger e Sylos Labini) che, a causa dello stato comatoso in cui versa la scuola, si può immaginare abbiano poca, o nessuna, dimestichezza con gli autori ed i monumenti antichi. Questa poca familiarità con la storia ed i modelli classici ha condotto il ceto dirigente a sostituire il mitopoietico “pantheon” ellenistico-romano con ben più prossimi ed ordinari modelli. L’ormai trionfante e proteiforme ceto medio, non solo in Calabria per la verità, è incapace di porre le basi di un’identità i cui riferimenti ideali siano nobili ed autorevoli. Il “milieu” culturale cui riesce ad attingere per la costruzione di un’identità è inevitabilmente commisurato alla sua propria media, superficiale cultura. Il pervasivo ceto medio non ha voglia, e non ha bisogno soprattutto in una regione clientelare, di defatiganti studi e noiosi apprendistati per raggiungere i vertici della società sia in termini di status che di gentilezza delle forme individuali e collettive. Il “petit bourgeois” calabrese è ormai privo, dalla caduta del muro di Berlino, anche di quegli strumenti ideologici che gli avevano consentito di interpretare, almeno a grandi linee, la realtà. È divenuto membro della classe dirigente, nella maggior parte dei casi, senza nemmeno più gli studi, l’apprendistato e il mestiere che i partiti prima fornivano ed esigevano. L’esito, conseguente, è che la nostalgia per le tradizioni natie si traduce nelle sagre della polpetta o della patata, nei pali meta-medioevali o nelle fiere strapaesane, ma mai, se non in poche lodevoli eccezioni, in rivisitazioni appassionate e colte di secolari, sedimentati riti e di rappresentazioni religiose o laiche. La nostalgia per il buon tempo antico, per i sapori di una volta è un peculiare sentimento piccolo borghese, un impulso dell’animo proprio del ceto medio incapace di conflitti. Un sentimento che conduce, congenitamente e mimeticamente, allo stemperamento delle passioni in un’ordinaria rievocazione di memorie autoconsolatorie per se stessi ed accattivanti per gli altri, i “forestieri”. Una delle caratteristiche del piccolo borghese è la paura dell’ignoto, il timore che la sua mediocre posizione faticosamente raggiunta possa esser messa in discussione da qualunque evento più o meno straordinario. La paura individuale si trasforma in angoscia collettiva che determina l’incapacità di concepire e di accettare le grandi tragedie della storia perché si ha il terrore che esse possano ripetersi e coinvolgere anche se stessi. Si vuole, piuttosto, che il declino e le crisi diventino più rassicuranti “trasformazioni”, “mutamenti”, “transizioni”, non si arriva neanche a concepire le tragedie, le catastrofi come la fine della civiltà antica e la caduta di Roma distrutta da Alarico. Tanto più in un momento come l’attuale, segnato dalla crisi profonda della globalizzazione, del liberismo e del turbo-capitalismo. Uno dei peggiori esiti di questa mediocrità culturale e modestia caratteriale, individuale e collettiva, è che, in Calabria, si arriva a glorificare massacratori, a celebrare eccidi di concittadini ed intitolare ponti, lungofiumi, piazze e festival ad invasori purché godano di una qualche fama nazionale o internazionale che attrarrebbero, a parer loro, turismo culturale.
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