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di BATTISTA SANGINETO
I calabresi non hanno mai goduto e continuano a non godere di una buona stampa, in questo caso di una buona “la Stampa”. Nella letteratura “forestiera”, in particolar modo in quella spagnola del XVI e del XVII secolo, il calabrese è ritratto in modo sinistro, fino a identificarlo con Giuda. Già nel ‘400, dicendo di basarsi sull’autorità degli scrittori antichi, sia Niccolò Pernotto che Ambrogio Calepino definiscono in modo negativo gli abitanti della Calabria. Calepino, nel suo famosissimo Dizionario del 1502 fissa questa precocissima “communis opinio” sui calabresi-Bruzi scrivendo alla voce relativa: “brutii dicti, quasi bruti et obscoeni sint [.] a Romanis propter eorum perfidiam pene deleti fuere, sine dignitate, sine honore, ad servilia opera semper coacti” (sono detti brutii, quasi fossero bruti e osceni, furono quasi distrutti dai Romani a causa della loro perfidia e poiché erano privi di dignità e onore furono sempre destinati a compiti servili). Questo stereotipo a proposito dei Bruzi, indistinti dai calabresi dell’epoca e quasi certificato dai dizionari, sembra passare, poi, ai viaggiatori ed agli inviati governativi di ogni nazionalità e provenienza. Persino nell’opera Persiles y Sigismunda di Miguel Cervantes, l’autore dell’immortale “Don Chisciotte”, il calabrese è ritratto in modo talmente sinistro da farlo diventare il brigante per antonomasia e la Calabria è descritta come una terra popolata solo da serpenti e da malfattori. La generale disistima, ancora in pieno Settecento, insegue i calabresi -presunti ribelli ed indomiti avversari di qualunque occupatore- tanto da far riaffermare ad alcuni esegeti del Vangelo che i crocefissori di Cristo erano Bruzi. Per rispondere a queste accuse, nel 1737 viene ripubblicata da Tommaso Aceto una dissertazione dello studioso Pietro Polidori, lunga 73 pagine, intitolata “Brutii e calunnia de inlatis Jesu Cristo Domino nostro tormentis et morte vindicati “ (Assoluzione dei Bruzi dalla calunnia di aver prodotto i tormenti e la morte di nostro Signore Gesù Cristo). L’argomento usato dallo studioso calabrese è squisitamente filologico, di una modernità sconcertante se si pensa che all’epoca la filologia classica doveva ancora nascere come scienza. Esso si basa sul passo dell’erudito latino del II secolo d.C., Aulo Gellio, contenuto nell’opera Noctes Atticae, X, 3, 18-19. Il passo in questione, proprio quello usato dagli accusatori per dimostrare che i Bruzi erano i flagellatori e crocifissori di Cristo, dice che essi svolgevano nell’esercito romano officia servilia (compiti servili) perché si erano schierati, al tempo delle guerre puniche, con Annibale e, quindi, non erano ammessi a servire come milites (soldati). Ora, la narrazione evangelica e le chiose dei Santi padri concordano nell’affermare che Cristo fu crocifisso da milites (soldati) per la qual cosa Polidori si chiede: quis numquam sanae mentis ex Gellii textu inferat Bruttios fuisse ? (chi, dunque, sano di mente, potrebbe inferire dal testo di Gellio che siano stati i Bruzi?). Alle vecchie accuse si era aggiunta un’altra risibile ipotesi avanzata, nel 2004, sulle pagine di “Libero” e riproposta, “tout à fait comme”, sulle pagine de “la Stampa”, pochi giorni or sono, da Mimmo Gangemi. L’ingegnere reggino, del quale abbiamo apprezzato il recente romanzo “Il giudice meschino”, sostiene anch’egli che la “X legio Fretensis” si chiamasse così perché era di stanza nello Stretto tanto che “.Le fu subito dato il «cognomen Fretensis», perché formata da legionari del luogo, reggini e Brettii, o Bruzii.”. L’ingegner Gangemi continua affermando che “. All’epoca di Cristo, la Legio X Fretensis era agli ordini di Ponzio Pilato. E le toccò flagellare e crocifiggere Gesù. Fu un suo soldato che «trafixit costatum Christi».”. Tutte sciocchezze. Primo: non abbiamo alcuna prova che la “Legio X” fosse di stanza all’epoca di Tiberio, e quindi di Cristo, in Palestina, ne abbiamo certezza archeologica solo a partire dal II secolo d.C. Secondo: la denominazione geografica della legione, derivante dal teatro di operazioni militari del I secolo a.C. che fu lo Stretto di Messina, non ha mai comportato che i coscritti fossero originari della regione geografica che dava il nome alla “Legio”. Terzo: i Reggini erano ormai cittadini romani non solo perché, a differenza dei Bruzi che abitavano solo la Calabria settentrionale, erano stati alleati di Roma nella guerra punica, ma soprattutto perché a partire dal 90 a.C. tutti gli abitanti, di condizione libera, della penisola divennero cittadini romani a seguito della “lex Julia de civitate”, promulgata da Lucio Giulio Cesare. Bruzi e Reggini appartengono a due etnie diverse e se anche fossero stati davvero “milites” reggini quelli della Legio X, ed abbiamo dimostrato che non è vero, non avrebbero potuto essere quei Bruzi che, secondo i sopra citati calunniatori del XVII e del XVIII secolo, erano stati i crocefissori di Cristo. Colpisce ed induce ad una seria riflessione il fatto che uno scrittore calabrese sciorini, con auto-ironica leggerezza e compiacimento masochistico, questa falsa accusa su uno dei più importanti giornali nazionali. Non sarà prevalso il desiderio inconscio dei calabresi di annettersi, di rivendicare a sé chiunque o qualunque avvenimento che goda di una qualche fama internazionale per costruirsi un’identità? Non è, forse, uno dei tanti modi che i calabresi hanno trovato per auto-flagellarsi, per auto-crocifiggersi e dichiararsi, anche a se stessi, incapaci di uscire da una condizione di inferiorità morale, sociale e economica? Non è, forse, una manifesta incapacità di auto-rappresentarsi in modo diverso, positivo, auto-affermativo ed auto-elogiativo? I calabresi dovrebbero iniziare a costruire un’identità positiva nella quale riconoscersi pur sapendo che l’identità, non importa quale essa sia, è finta, artefatta, è messa in scena, costruita, sovrapposta, è una maschera che viene indossata per rappresentare se stessi. La sua costruzione, però, è irrinunciabile perché la psiche, individuale e collettiva, ha bisogno di avere una qualche identità anche se debole, anche se bisognosa di essere continuamente curata e rinnovata. L’ambivalenza dell’identità sembra connaturata nel suo medesimo manifestarsi perché se, da una parte, qualunque forma di identità contiene una rinuncia alla molteplicità ed un’accettazione della particolarità, dall’altra la sua assenza o la sua attenuazione comporta la condanna ad una perenne precarietà psicologica, individuale e collettiva.

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