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di FULVIO LIBRANDI
La Calabria è un film muto. Mediamente noi calabresi siamo come mimi, facciamo il verso di indignarci, protestiamo l’innocenza della maggioranza, forse vorremmo persino urlare, ma non un sussurro, non un fiato, esce dalla nostra bocca. Viviamo, con tutta evidenza, un momento importante della storia del contrasto alla ’ndrangheta, forse a ora il più importante. Eppure sono pochi i commenti sui giornali, pochi gli amministratori – ma meritevoli- che si schierano esplicitamente, timida la Chiesa, seppure con importanti eccezioni; sono rare, anche se significative, le manifestazioni della gente comune a supporto dei magistrati. La comunicazione è senza eco e non riesce a creare un clima di partecipazione. È difficile, in queste condizioni, immaginare una nuova primavera della nostra regione nonostante l’opera meritoria di tante organizzazioni antindrangheta che, non per colpa loro, non riescono a incidere significativamente sulla mentalità dei più. Qui la maggioranza resta zitta nei gesti e nelle parole. Uno spezzone sonoro, a volte, quasi per caso, interrompe le immagini del film muto: si sente la voce rotta di una donna rancorosa che protesta le virtù di Giovanni Tegano, capondrangheta tratto agli arresti dopo 17 anni di latitanza. Le urla di questa donna da Reggio Calabria si riverberano a Roma, a Milano, stimolano le solite riflessioni televisive, che non scalfiscono però il nostro ambiente ovattato, quasi l’oggetto della discussione fosse una cattiva fiction e non la nostra vita reale. È questo il punto, ci siamo abituati a vedere la Calabria che passa sui giornali e sui media nazionali come una terra che non è la nostra terra; a volte persino la vita vera che scorre sotto i nostri occhi ci sembra realtà virtuale. Il procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, dopo l’arresto di Tegano commentava: «la scena più triste è avere notato decine di persone mescolate nella folla che guardavano semplicemente lo spettacolo senza reagire, come se nulla li riguardasse». La maggioranza di noi, più o meno coscientemente, rifiuta di considerarsi conterraneo di quei personaggi dai soprannomi strani, che conosciamo attraverso le foto segnaletiche, o che vediamo una volta sola nella nostra vita, per pochi secondi, il giorno dell’arresto. Rifiutiamo l’idea che con queste persone abbiamo diviso e dividiamo oggi economia e sviluppo; non accettiamo che con gli uomini della ’ndrangheta abbiamo in comune un cattivo passato, un presente malato, che rischia di diventare cattivissimo futuro; non vogliamo credere che dal nostro rapporto con questi “conterranei che sbagliano” dipende la qualità della vita dei figli, dei nostri e dei loro, che resteranno a vivere qui. Questo è lo stato dell’arte in Calabria: qui la condanna è netta – anche se naturalmente silenziosa – solo davanti all’omicidio dei bambini, per il resto abbiamo dentro di noi i codici per capire tutto della mentalità ’ndranghetista. Pur non condividendo, possiamo persino capire cosa volesse dire quella donna indicando Tegano come uomo di pace. Respiriamo la stessa aria, calpestiamo lo stesso suolo, siamo presi, volenti o nolenti, in un comune destino, ma non vogliamo caricarci del problema. Del nostro silenzio sappiamo tutto: sappiamo che è dettato, di volta in volta, da disinteresse, da interesse, da omertà, da paura, e sappiamo anche, come ripetiamo in ogni occasione noi del Museo della ’ndrangheta, che un sentimento antimafia in Calabria non si diffonderà come un’epidemia positiva, ma che bisognerà pensarlo e perseguirlo come pratica educativa e col concorso di tutte le istituzioni. Ma in questo momento del tutto particolare, di fronte a una così sistematica azione di contrasto alla ’ndrangheta, è un peccato mortale continuare a esibirci nell’“alzata di spalle”, il pezzo migliore del nostro repertorio da cinema muto. Credo che la dignità ci imponga di leggere il ringraziamento del dottor Pignatone a quanti sono scesi in piazza a manifestare il loro sostegno alle forze dell’ordine come una implicita richiesta, fatta a chiunque abbia la Calabria nella testa, di fare uno sforzo di generosità e prendere coscienza che quello che stanno facendo tanti magistrati nella regione questa volta sta avvenendo davvero. Ci chiede di parlarne tra amici, di commentare i giornali, di prendere spunto dalla cronaca per fare lezioni nelle scuole. Occorre ascoltare bene le parole del procuratore aggiunto Prestipino quando dice che «la ’ndrangheta è in difficoltà», perché offre un milione di spunti per poterci confrontare criticamente con la nostra peggiore tara identitaria, quella che ci fa pensare inscritti in un destino immutabile. Occorre ascoltare Gratteri quando demitizza le logiche mafiose. Non ci viene chiesto di essere eroi, ma solo di sottrarre al silenzio queste voci, di sforzarci di prendere coscienza di quello che sta avvenendo nella nostra terra, di accettare e comunicare l’idea che, per definizione, ogni destino è reversibile. È poco, ma è quello che serve adesso: pensare che può essere una svolta per iniziare a costruire una Calabria giusta, per poter almeno immaginare una Calabria giusta, ché se fosse appena stata giusta la Calabria avrebbe salutato l’arresto degli assassini del piccolo Domenico esponendo ai balconi le migliori coperte, come si faceva una volta al passaggio della statua dell’Immacolata. La lotta è unica, e ha componenti giudiziarie, politiche, economiche e anche culturali. Nel corso della conferenza stampa per illustrare i particolari dell’arresto di Tegano, il questore di Reggio Casabona, dimostrando finezza di analisi, ha affermato: «Noi, da parte nostra, continueremo a lavorare anche sul piano culturale perché è insopportabile vedere che un calabrese possa vivere applaudendo un mafioso. Lavoreremo quindi di più per entrare meglio nel cuore della gente». È criminale oggi non schierarsi apertamente con queste persone e sostenerle convintamente. A meno che, ma è un’ipotesi che non voglio contemplare, non sia proprio il nostro cuore a essere diventato muto.
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