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di Luigina Dinnella
ROMA – Il Centro studi Lucani nel mondo ha organizzato a Roma una tavola rotonda per discutere del terrorismo in Italia, delle sue forme, dei contesti e delle vittime, anche lucane. A far da spunto alla discussione è la presentazione del libro di Gianfranco Di Santo, sostituto commissario di Polizia, “Le verità nascoste. Il terrorismo rosso in Italia 1970-2007”, una raccolta documentale, integrata dal racconto delle vicende personali che l’hanno visto protagonista nella lotta al terrorismo nel corso della sua carriera di poliziotto. A moderare l’incontro è il giornalista Giovanni Fasanella, ospiti del dibattito sono il giudice Rosario Priore, giudice istruttore dei primi quattro processi del delitto Moro, Giovanni Ricci, figlio di Domenico Ricci, uomo della scorta di Aldo Moro, caduto il 16 marzo del 1978. Lo scopo dell’iniziativa, come ha sottolineato il professor Antonio Pilieri, presidente del Centro studi lucani nel mondo, non è accademico, anzi vuole essere un tributo alla memoria di quanti hanno perso la vita in quei terribili anni. «Il terrorismo – dice Pilieri – è stato un periodo traumatico per il nostro Paese, ed ha avuto effetti devastanti. Fra il sangue versato c’è anche quello dei figli della nostra terra. Penso a Giovanni Saponara, a Carmine Pio Remollino e ad Antonio Santoro, e ad altri nostri concittadini morti a causa di quel male oscuro che colpì la nostra democrazia. Bisogna rendere omaggio, non solo a coloro che hanno perso la vita per la difesa dei valori della legalità e della giustizia, ma anche a quelle “vittime sopravvissute”, le vedove, i figli, i genitori, che attendono ancora giustizia e sulle quali non poche volte è caduto il silenzio. Senza memoria, aggiunge Pilieri, non c’è progresso; la cecità intellettuale non porta da nessuna parte». Giovanni Fasanella, inizia il suo intervento, ricordando i numeri elevatissimi di questa guerra, che ha visto perdere la vita a ben 500 persone, solo dal dicembre del 1969 al maggio 1978. Conosciamo molto di quel periodo, i nomi, i fatti, ma quello che ancora ci sfugge, a distanza di 40 anni – dice Fasanella – è il perché tutto ciò sia successo, o meglio, ci sono state date delle spiegazioni dalla politica e dalla magistratura, ma non sono risposte credibili, ci sono ancora troppe verità nascoste, esattamente come recita il titolo del libro di Di Santo, che ha voluto portare il suo ricordo di quegli anni vissuti, in prima linea, quando da poliziotto faceva parte di un corpo mobile dedito alla cattura dei terroristi».
Per Fasanella, il libro di Gianfranco Di Santo è una bellissima antologia, che già oggi comincia ad essere adottata nelle scuole lucane, ed anzi si augura che anche altre regioni vogliamo seguirne l’esempio. «E’ scritto con grande senso della misura – aggiunge Fasanella – con grande equilibrio, ed è un libro onesto, perché Di Santo non sentenzia, non giudica. E’ un lavoro rivolto a chi, perché troppo giovane, gli anni di piombo non li ha conosciuti ed a coloro che li hanno dimenticati. Il fine è quello di portare le giovani generazioni a saperne di più, affinché mai possa accadere quello che Fasanella racconta, cioè di giovani che alla domanda, chi era Aldo Moro, hanno risposto: il capo delle Brigate Rosse, o come, aggiunge Giovanni Ricci, c’è anche chi ha risposto che era l’allenatore del Bari!». Di Santo, prendendo la parola, innanzitutto ringrazia il Giudice Caselli per l’autorevole prefazione al suo libro, e poi aggiunge: «Ho voluto scrivere questo libro, io che non sono né uno scrittore, né un giornalista, perché sentivo il bisogno di ricordare tutte le persone cadute per difendere la libertà del nostro paese. L’ho fatto per mantenere viva la loro memoria, visto che troppo spesso vengono dimenticati. Dopo la commozione del momento, dopo i funerali di Stato e una medaglia al valore, i familiari delle vittime, vengono di fatto abbandonati, non solo dalla società, ma quel che è più grave, da quelle istituzioni per le quali i loro cari hanno dato la vita. Per istituire un giorno dedicato alla loro memoria, ci sono voluti anni. Il terrorismo, aggiunge Di Santo, è stata una tragedia immane, di proporzioni gigantesche, una vera e propria guerra civile, i cui costi, anche in termini economici, sono stati altissimi, ma nonostante questo, nei libri di scuola, non vi è traccia, se non pochissime righe. Righe che invece vengono dedicate sui media ai terroristi. Alcuni di loro ce li siamo trovati anche in Parlamento. Ritengo, aggiunge Di Santo, che le responsabilità morali non cessano per il solo fatto di avere espiato la pena, e chi ha regolato i conti con la giustizia, deve agire comunque discrezione e misura. Il mio obiettivo, devolvendo i proventi della vendita del libro al “Fondo Assistenza degli orfani delle vittime del Terrorismo”, vuole essere quello di trasformare questo lutto privato in un lutto della Repubblica. La lotta deve essere innanzitutto culturale, sui valori, affinché non si ripeta mai più un tale scempio». Il giudice Priore, sollecitato dalle domande precise di Fasanella, è un fiume in piena, d’altronde, lui è uno di quelli che su questo tema potrebbe parlare per ore, perché questo fenomeno lo ha studiato, visto e combattuto. Priore cita subito, facendola propria, un’affermazione della terrorista Anna Laura Braghetti, quella in cui dice che nessuna legge, nessuna punizione potrà mai cancellare il dolore che abbiamo procurato. «Il fenomeno del terrorismo – afferma Fasanella – purtroppo non appartiene ancora alla storia, ma alla cronaca, e tende a riprodursi di continuo». A questo punto, la domanda è d’obbligo, ed è Fasanella a sollecitare ancora il giudice Priore, chiedendogli il perché abbia attecchito, in maniera così virulenta, proprio in Italia. Perché è successo proprio da noi? Priore si lascia stimolare, ed afferma: «Da noi ha avuto tale dimensione proprio perché siamo un Paese anomalo, una democrazia debole, anzi, in Italia la democrazia, dopo la seconda guerra mondiale era un lusso, perché non eravamo pronti come Paese ad accoglierla. Forse proprio per questo siamo rimasti una democrazia immatura. Il terrorismo per noi è stato un nemico molto forte, perché era più potente dello Stato stesso. Abbiamo avuto una generazione, prima che di brigatisti, di cattivi maestri che insegnavano anche nelle nostre Università. Le colpe stanno anche lì, nelle dottrine che loro impartivano, quelle stesse teorie, che in altri Stati hanno cagionato dei movimenti che sono durati lo spazio di pochi anni. Ricordo le parole di De Gaulle, che disse, in occasione del ’68 francese: adesso c’è stata la ricreazione, ora basta, si ritorna nelle scuole. Il ’68 nel mondo non ha lasciato gli strascichi che ha lasciato da noi. In Italia il fenomeno del ribellismo, è durato 40 anni, e ancora dura. Questa è un’altra anomalia del nostro Paese. Quel nostro mettere sempre tutto in discussione continuamente, quel non osservare nessuna legge, nessuna regola, è presente ancora oggi; tutti stiamo assistendo agli sfasci che ha portato nel campo della moralità e dell’etica; il nostro essere soggetti alla corruzione né è la prova». L’intenzione di questo convegno era anche quella di affrontare il tema delle vittime “sopravvissute” degli anni di piombo, un tema caro a Fasanella, sul quale ha scritto un libro, che come lui stesso dice «ho avuto difficoltà a pubblicare. Nessuna casa editrice era disposta a farlo. Tutte ritenevano ridondante un libro in cui fossero le vittime sopravvissute a raccontare, in prima persona, la loro esperienza. Scrivendolo – dice Fasanella – ho scoperto che cancellare il trauma per la paura di fare i conti con la sofferenza che provoca, è una difesa del primo momento, ma poi degenera, e a lungo andare diventa una patologia, che oggi ha anche un nome: si chiama sindrome da stress post traumatico. In pratica si vive prigionieri di quel momento». Giovanni Ricci, concorda in pieno con questa tesi, per averla vissuta sulla sua pelle. «Solo nel 2006 c’è stata una legge – dice Ricci – che riconosce un’assistenza psicologica alle vittime, ma di questa legge non ne sa nulla nessuno, quindi è difficile chiederne l’applicazione». Fasanella, lo chiama in causa, invitandolo a comunicarci la sua esperienza di orfano del terrorismo. «Il mio ricordo – dice Ricci, è un flash di un padre felice, che la sera prima di morire mi saluta normalmente. Avevo 11 anni, e la sera del 15 marzo avevamo commentato insieme una mia sconfitta sul campo di calcio. Il giorno dopo l’ho visto cadavere su una strada, crivellato da 20 colpi di pistola. Mi manca ancora mio padre, come manca a tutti quelli che l’hanno perso. Ma perderlo così, ucciso in quel modo, penso che sia ancora più atroce. Nell’adolescenza mi è mancato un punto fermo. All’inizio ci erano tutti vicini, dalle istituzioni alla gente, ma dopo un po’ ci siamo ritrovati soli. Ed è lì che ho cominciato a leggere, a cercare di capire perché era successo tutto questo, ma non sempre arrivavo a delle risposte». Non è semplice “spingere la notte più in là”, come racconta nel suo libro Mario Calabresi, figlio del commissario Calabresi, ucciso anche lui. «Io non ci sono ancora riuscito, dopo oltre 30 anni dalla morte di mio padre, forse perché non è stata riconosciuta la nostra sofferenza, perché non c’è stata ancora giustizia su quei fatti, perché il senso di frustrazione è lì che mi fa compagnia sempre, perché alla domanda di giustizia e di verità che invochiamo, non è stata data ancora una risposta». Su questo il Giudice Priore, interviene, e dice: «Sappiamo moltissimo su quelle stragi, sappiamo chi è stato materialmente a compierle, ma ci sfuggono i livelli alti, chi sono i mandanti, quali siano le menti che si celavano dietro questo progetto di sovversione dello stato civile e democratico. L’idea che Moro, politico strutturato, dialogasse di politica con Moretti non può convincerci, perché Moretti non era in grado di interrogare Moro, non ne aveva la preparazione adeguata per farlo, ma ci voleva una persona politicamente più matura, che avesse anche la stessa età di Moro, quindi non è credibile questa ipotesi. E’ schiacciante l’idea di non poterlo sapere forse mai più, perché non abbiamo più la possibilità di fari scambi con i terroristi, ormai sono tutti liberi o quasi, e non accetteranno mai una trattativa, in cambio di informazioni e notizie. Insomma il cervello politico del terrorismo non lo conosciamo, nonostante anni di ricerche, di studi e di lotte. Certo, l’ipotesi che il cervello fosse in Autonomia Operaia non è del tutto da scartare, ed anche i legami con la Germania e la Francia non sono da escludere, anzi, sono quasi certi».
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