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di CARLO SPARTACO CAPOGRECO
Un mio prozio emigrato in America ai primi del Novecento, raccontava che andando a caccia la domenica a volte gli era capitato di imbattersi in qualche cacciatore bianco intento a saggiare le cartucce sparando addosso a persone di colore. Anche in Calabria, un secolo dopo – è cronaca di queste ultime settimane –, c’è chi fa il tiro a segno sui negri, seppure – bontà sua! – ha l’accortezza di utilizzare fucili ad aria compressa.
Le testimonianze degli immigrati e i reportage realizzati dai giornalisti in questa regione di grandi virtù e di antiche e nuove schiavitù, raccontano oggi anche di pogrom perfettamente riusciti, di campi di concentramento chiamati centri di accoglienza e di diffuso sfruttamento neoschiavistico. Raccontano di uomini trattati come animali – tanto di loro servono unicamente le braccia – e di troppi, tanti casi di violenza gratuita ed impunita contro gli immigrati, realizzati non solo dalla mafia (il che, evidentemente, non farebbe notizia), ma anche da “uomini comuni”, da individui “normali” e nostri vicini di casa. Arbeit macht frei! (“Il lavoro rende liberi!”) era il titolo di un romanzo di Lorenz Diefenbach del 1872. Ma, durante la Seconda guerra mondiale, divenne il crudele, sarcastico “saluto di benvenuto” rivolto agli internati-schiavi posto all’ingresso di Auschwitz e di altri campi di concentramento nazisti. Quel motto riassumeva in sé tutta la menzogna e la crudeltà dei Lager nei quali la condizione di disumana privazione dei prigionieri strideva, per grottesca ironia, con l’apparente candida eticità della dicitura. Ai giorni nostri, quella scritta, Arbeit macht frei!, torna prepotentemente alla ribalta. Non tanto per il fatto di cronaca recentemente accaduto in Polonia (dove l’insegna originale in ferro battuto è stata rubata dalla sommità del grande cancello di Auschwitz), quanto perché ancora una volta quelle parole suonano grottescamente ironiche spingendoci a riflettere sui nuovi Lager e sugli schiavi di oggi. Come è possibile che, in una Repubblica fondata sul lavoro, venga consentito sotto gli occhi di tutti l’utilizzo illegale di forza-lavoro in stato di schiavitù e di soggezione? Da nove anni in Italia si celebra la Giornata della Memoria delle vittime della Shoah. Un’occasione importante per parlare il più possibile ai giovani, nelle scuole e anche fuori. Per ragionare con loro anche dei nuovi ghetti sorti a due passi da casa nostra o, come ha fatto in questi giorni Adriano Sofri, per “rileggere” insieme a loro Primo Levi e giudicare, ancora una volta, seguendo l’insegnamento suo, se può essere considerato un uomo chi vive, “come un rospo a gennaio”, nei Lager di schiavi moderni, impunemente attivi nel vostro Paese nato dalla Lotta di Resistenza. Anziché ripetere le litanie sugli “italiani buoni” (a fronte dei “cattivi tedeschi”, su cui vengono spesso scaricate tutte quante le responsabilità della persecuzione e della Shoah), oggi, Giornata della Memoria, dobbiamo raccontare ai giovani dei crimini del fascismo, delle sue/nostre leggi razziali che anticiparono e prepararono lo sterminio, del colonialismo italiano e della sua violenza spesso subliminare e paternalistica, ma non meno disastrosa di ogni altra violenza. Dobbiamo evitare, anche, le tiritere stonate sulla “bontà calabrese”. I calabresi, evidentemente, hanno i difetti e le virtù di tutti gli altri popoli d’Italia e del mondo. Hanno certamente la virtù dell’accoglienza, da poco suggellata da Wim Wenders in 3D. Ma non basterebbero dieci Badolato, quindici Ferramonti o venti buone leggi sull’accoglienza per compensare lo scandaloso silenzio politico-istituzionale che ha avvolto per anni la realtà dei Lager rosarnesi della Rognetta e della Cartiera. E’ giusto cogliere l’occasione del 27 Gennaio, inoltre, per ricordare ai nostri figli da dove ci arrivano la libertà e il benessere di cui oggi godiamo. Per ricordare loro verità semplici ma spesso sottaciute: che è dai partigiani caduti ed impiccati che ci viene la libertà odierna, e che la nostra opulenza deriva non poco dal sudore e dalle lacrime degli africani stremati nelle piantagioni delle nostre piane o annegati in mare di fronte ai nostri lidi. Bisogna, in questo giorno, ricordare la lontana provenienza e il costo altissimo della nostra odierna libertà, se vogliamo custodirla per le generazioni che verranno, e se vogliamo che non muoiano per sempre il senso civico e la coscienza morale. Bisogna, infine, ricordare anche le sofferenze degli schiavi moderni: non potremmo non farlo nel giorno in cui commemoriamo la liberazione da Auschwitz degli schiavi di Hitler. La Giornata della Memoria, altrimenti, non sarebbe altro che il giorno della nostra falsa coscienza.
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