2 minuti per la lettura
Sarà la Corte di Cassazione a dire l’ultima parola sulla custodia cautelare in carcere cui è sottoposto Luigi Campise, 26 anni (in foto), catanzarese, condannato a 30 anni di reclusione per l’omicidio della sua ex fidanzata diciannovenne, Barbara Bellorofonte, contro la quale esplose quattro colpi di pistola il 28 febbraio 2007, a Montepaone (Cz), e che morì in ospedale dopo venti giorni di coma.
Il difensore dell’imputato, Salvatore Staiano, ha fatto ricorso al Giudice supremo impugnando la decisione del Tribunale della libertà di Catanzaro che, il 18 dicembre, ha respinto la richiesta di revoca della misura, lasciando Campise in cella.
I giudici catanzaresi si sono pronunciati dopo un lungo periodo di valutazione, iniziato a seguito della discussione dello scorso 10 novembre, quando l’avvocato affermò che mancherebbe completamente il pericolo di fuga, mentre il pubblico ministero Alessia Miele ribadì il «pericolo di fuga», ma anche l’«enorme gravità del fatto», «l’entità della pena inflitta», «la personalità, le abitudini e le frequentazioni dell’imputato, sintomatiche della contiguità con ambienti delinquenziali», il «comportamento processuale tenuto dall’imputato», già citate dal giudice che, ad agosto, ha rimandato il 26enne in carcere, da dove l’uomo era uscito il 29 luglio poichè i termini di custodia cautelare per lui erano scaduti, dal momento che la sentenza per l’omicidio non è ancora divenuta definitiva, e l’ulteriore condanna a 4 anni e 4 mesi di reclusione per estorsione e porto e detenzione illegale di arma, inflittagli a seguito dell’inchiesta «Pit stop», è stata scontata.
Anche il Tribunale della libertà, nelle sei pagine di motivazione della propria ordinanza, dopo aver respinto le questioni procedurali sollevate dalla difesa di Campise, ha voluto sottolineare come argomentazioni di merito: «l’enorme gravità del fatto e della pena inflitta all’imputato con la sentenza di condanna (30 anni di reclusione); la personalità, le abitudini e le frequentazioni del soggetto, quali desumibili dalle modalità stesse del fatto, indicative della sua contiguità con ambienti delinquenziali di elevato spessore; la volontà di occultamento insita nel mancato rinvenimento dell’arma da sparo impiegata per commettere l’omicidio; la condanna – definitiva dallo scorso mese di luglio – alla pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione per estorsione e porto illegale di armi – fatto indicativo, tra l’altro, della certa esistenza di legami con ambienti delinquenziali di notevole spessore».
A questo punto si attende la discussione del ricorso davanti alla Cassazione per la materia cautelare e che la Corte d’appello di Catanzaro fissi la data del processo di secondo grado per l’omicidio di Barbara Bellorofonte dal momento che la difesa ha impugnato la condanna a 30 anni.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA