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POTENZA – Mafia, legalità e nuove generazioni. La Biblioteca nazionale di Potenza ha ospitato Giancarlo Caselli, procuratore capo della Repubblica di Torino e autore del libro “Le due guerre. Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia” e Nicola Tranfaglia, professore emerito di Storia dell’Europa e del giornalismo all’università di Torino e autore del libro “Perché la mafia ha vinto. Classi dirigenti e lotta alla mafia nell’Italia unita (1861-2008)”.
Grandi questioni che chiamano in causa i caratteri di fondo dello Stato nazionale. A partire dalle modalità della sua formazione, come dimostrano le risposte dello storico Tranfaglia. La mafia, dunque, come collante dello Stato italiano sin dal suo nascere? «La componente mafiosa è un aspetto centrale della nostra storia, anche se in genere gli storici italiani non hanno capito l’importanza di un fattore che avrebbe finito per condizionare molti altri elementi. E del resto si è studiato molto poco il carattere delle classi dirigenti italiane che sono state espressione di una società molto fragile e non hanno avuto ostacoli nel comportarsi come si sono comportate».
La lotta alla mafia viene demandata alla magistratura e alle forse dell’ordine: basta questo? «La repressione è necessaria, però non è sufficiente. La vera emergenza è l’egemonia del metodo mafioso, che è terribilmente diseducativo. Solo una lotta culturale può arginare il dilagare di un metodo: una lotta per la democrazia, che metta l’uguaglianza dei cittadini al centro della battaglia». Caselli, invece, da magistrato, la mafia “l’ha vista in faccia”.
La prima guerra di cui ci parla è quella che lo Stato ha vinto contro il terrorismo che ha insanguinato l’Italia per un decennio circa. Da quando (siamo nel 1974, ndr) viene nominato giudice istruttore delle Brigate Rosse, incomincia la sua vita blindata, una vita sotto scorta. Episodi, questi, che fanno parte della vita torinese. Poi arriva la scelta di andare a combattere un’altra guerra, più difficile, quella contro la mafia e di trasferirsi a Palermo (nel gennaio 1993, ndr).
Se si è vinta la guerra al terrorismo perché non è stato possibile sconfiggere la mafia? E’ davvero invincibile allora? Caselli dà una spiegazione piuttosto triste di questa sconfitta. «Lo Stato ha accettato di perdere pur di scongiurare il salto qualitativo: dall’accertamento delle responsabilità dei mafiosi “doc”, come Totò Riina, all’accertamento dei legami e delle collusioni esterne. La guerra alla mafia, insomma, si inceppa quando si sfonda il cordone delle relazioni esterne. Allora non sei più un magistrato che fa il suo dovere, ma un oltranzista giacobino, una toga rossa».
Al termine del suo libro Caselli rivolge un incoraggiamento a tutti i giovani perché non diventino mai sudditi, ma cittadini attivi, coscienti della propria dignità e amanti di una libertà irrinunciabile. «Sono le scelte che facciamo oggi a preparare il futuro. Non ci deve essere spazio per la rassegnazione, l’indifferenza, il disimpegno. Vivere il presente con radicalità significa avere il coraggio di saper rompere gli idoli della seduzione, del consenso, del potere, per lavorare invece a una comunità finalmente capace di rompere le ingiustizie. Ripartendo dalla Costituzione».
Presenti all’incontro anche i rappresentanti di Confindustria Basilicata. Il presidente del Consiglio regionale, Prospero De Franchi, impossibilitato ad essere presente, ha mandato un personale messaggio augurale ai relatori e a tutti i partecipanti.
Anna Maria Calabrese
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