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Federica Monteleone, la sedicenne morta nel 2007 dopo un black out nella sala operatoria dell’ospedale di Vibo Valentia nella quale era sottoposta ad appendicectomia, se avesse ricevuto un intervento adeguato entro 3-4 minuti dalla crisi «ripristinando condizioni ideali con un massaggio cardiaco ed una corretta ossigenazione, avrebbe avuto ripristinate le funzioni vitali». A dirlo è stato Arcangelo Fonti, consulente medico-legale di parte civile per la famiglia di Federica, deponendo oggi al processo per la morte della ragazza che si sta celebrando davanti al Tribunale di Vibo Valentia. Secondo il consulente, Federica non ha avuto un collegamento adeguato con l’ossigeno e, probabilmente, ha avuto una brachicardia protratta che non ha consentito al sangue di circolare correttamente e di raggiungere il cervello. «La brachicardia – ha detto il perito – difficilmente può derivare da una scarica elettrica mentre più verosimilmente è riconducibile ad uno stato di ipossia che, secondo me, può essere stato provocato da una erronea intubazione o da una erronea somministrazione del gas anestetico volatile». Secondo il perito, inoltre, il danno cerebrale subito da Federica, probabilmente non è giunto dopo il ritorno della luce, ma prima ancora del black out era già in condizioni di ipossia. Per il perito, infine, «la condotta dell’anestesista non è stata adeguata anche sotto il profilo terapeutico per la mancata somministrazione di alcuni farmaci». Dopo Fonti, ha deposto un altro perito medico legale della famiglia, Vannio Vercillo, secondo il quale «non ci sono elementi per dire che l’ustione riscontrata sulla gamba di Federica sia stata prodotta da un scarica elettrica anzi si può escludere». Il processo è stato rinviato al 14 gennaio prossimo.
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