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di GIOVANNI IUFFRIDA
Gli eventi in corso riguardanti l’intervento dell’esercito per le demolizioni degli abusi edilizi a Lamezia consentono di affermareDemolizioni di alloggi abusivi e le vittime del bisogno segue dalla prima e ciò, per alcuni versi, è un paradosso, che le uniche vittime di quanto sta accadendo sono le famiglie degli abusivisti per necessità. Vittime del bisogno, governato dalla politica e dalla mafia. Negli anni, il processo edilizio è stato guidato, con la complicità o il silenzio, a fini elettorali. Leggi sulla prevenzione e controllo, sistematicamente disattese, sono la dimostrazione tangibile del fallimento di un intero Paese. Ci sono, infatti, tra le opere da demolire anche case unifamiliari o ampliamenti di abitazioni singole. Ma la legge deve essere uguale per tutti: quindi, tutte le opere costruite abusivamente vanno demolite. “Nulla quaestio”. Vanno demolite le costruzioni per attività speculative e quelle di famiglie che hanno provveduto, con l’autocostruzione, spesso prolungata nel tempo, a sopperire alle manchevolezze di uno Stato assente, quando si tratta soprattutto del dovere di offrire un tetto alle famiglie socialmente deboli. Così come sono assenti le istituzioni quando hanno uno sguardo monoculare, nell’amministrazione della giustizia o nell’amministrazione di un ente locale, per cui non riescono a essere imparziali, quanto meno per difetto del senso della vista. Comunque, una cosa è certa: se il processo in atto si arresta, si rischia, in pratica come nel caso di “Mani pulite”, di colpire soltanto qualcuno, che pagherà per tutti. Un’ingiustizia nell’ingiustizia, che sarebbe la dimostrazione palese che non funziona il principio fondamentale della convivenza. Per non proseguire più sulla strada del passato, il momento attuale deve costituire una svolta, un punto di non ritorno. Bisogna fare quello che fino a ora non si è fatto: cioè prevenire e sanzionare tutti gli abusi esercitando il potere/dovere di controllo sul territorio, che la legge impone, con l’indispensabile rigore e con il necessario senso del limite, come ricorda Anselm Grun, condizione fondamentale per il vivere civile. Un limite dettato dalla necessità di governare un territorio in presenza di una comunità amministrata in maniera orizzontale, che significa non tutelare le gerarchie, non attribuire privilegi. Questo modello non tollera zone d’ombra nelle istituzioni: tutti devono essere trattati allo stesso modo, sotto qualsiasi profilo. E, in particolare, le risorse delle istituzioni devono essere impiegate per garantire il rispetto della dignità di ciascuna persona, tutelandone i diritti fondamentali, tra cui il diritto a un’abitazione dignitosa. A Lamezia, il limite è un’esigenza di qualità della vita e della forma della città. Quando si definiscono dei limiti chiari per tutti, si può dare una mano concreta a un processo di civile convivenza. Soprattutto in materia urbanistica, che è una palestra per esercitazioni elettorali, bisogna eliminare tutte le zone d’ombra; e i sistemi ci sono. L’ex magistrato Gherardo Colombo in un suo efficace volume ha descritto “un paese immaginario” mettendo in evidenza la difficoltà di amministrare la giustizia quando si strappano le multe per divieto di sosta; quando non si rilasciano fatture; quando per la costruzione del palazzo di giustizia «i lavori di sopraelevazione vengono assegnati all’impresa che ha versato una cospicua tangente»; quando si truccano i concorsi; «quando si rendono edificabili terreni che dovrebbero essere destinati a parco». Poi c’è la mafia che chiede «il premio dell’assicurazione» e governa il bisogno della gente comune in condominio con la politica. Così «trionfano il sotterfugio, la furbizia, la forza, la disonestà sotto l’apparenza delle leggi uguali per tutti, del rispetto di ogni diritto di base. Coloro che si attengono alle leggi formali (che non è detto siano pochi) sono scavalcati ogni giorno da chi non le osserva». Per cambiare rotta, in campo urbanistico sarebbe sufficiente per chi governa il territorio non portarsi “al limite” della legge ma stare dentro la legge, abbandonando tutte le esercitazioni che conducono a equivoci diseducativi e alle forme di autodeterminazione dei proprietari di un terreno, che significano spesso abusivismo edilizio. Gli enti locali dovrebbero dimostrare la capacità di dare testimonianza di poter costruire una società orizzontale e non di dare prova di maestria, cioè di abilità nell’aggirare le norme edilizie e urbanistiche. Se si guarda alle politiche urbanistiche del nuovo secolo, emerge un filo conduttore che le accomuna: riempire gli spazi urbani vuoti con nuovi volumi. È stata – come insegna anche la storia di questa città – una contraddizione tra le azioni di pianificazione avviate e il rilascio di permessi di costruire chiacchierati su aree destinate a parcheggio pubblico (l’edificio destinato agli uffici del giudice di pace è un esempio). Le centinaia e centinaia di licenze, concessioni e permessi a costruire rilasciate per capannoni agricoli, per attività avicole con arnie al primo piano, eccetera, dagli anni Ottanta in poi hanno disseminato una grave incultura e stimolato gli abusi edilizi e le dodicimila domande di condono, creando visioni distorte sull’uso possibile e impossibile del territorio. Tutto questo è indice di responsabilità che non sono imputabili soltanto al portatore di un bisogno sociale di un tetto per la propria famiglia. E il rischio attuale è che l’individuazione delle responsabilità si fermi all’abusivista per necessità. Poi bisognerebbe smetterla di parlare di una città con una bassa crescita edilizia: è disinformazione, che fomenta ulteriori tensioni e confusioni. Quello attuale è soprattutto un problema di qualità edilizia. Dal rapporto di Nomisma, società che ha elaborato l’Analisi delle dinamiche socioeconomiche e demografiche di Lamezia a supporto del Piano strategico, si evince con chiarezza che la città è, ormai per antonomasia, il centro calabrese con il più alto tasso di crescita edilizia. Già il Piano regolatore evidenziava a chiare lettere che il territorio comunale era, ed è, caratterizzato da un rapporto molto elevato tra volumi edificati e residenti, con più di diecimila alloggi costruiti abusivamente. Poi, l’iniezione nel mercato immobiliare di una massa considerevole di volumi edilizi (legittimi e illegittimi), non fa altro che impoverire i già poveri, cioè i possessori di una piccola abitazione che avevano l’aspettativa di acquistarne una nuova alienando, per acquisire liquidità, quella in proprietà. In un contesto già inflazionato da un numero considerevole di edifici di bassa qualità nell’ambito dei quartieri sorti spontaneamente dagli anni Settanta in poi, è stato cancellato il mercato delle abitazioni nei centri storici della città: una chiara e netta inversione di tendenza rispetto all’ultimo decennio del secolo scorso, quando passione per la storia locale e architettura tradizionale si sposavano sull’altare della celebrazione dell’antico ora annullata dai fasti di una nuova edilizia, aggressiva e per nulla rispettosa dell’ambiente. Ora è giunto il momento di smetterla di parlare per sentito dire. Frasi del tipo «è colpa del Piano regolatore», «gli abusi si possono sanare con il Piano strutturale», «non si poteva fare niente prima dell’intervento della Procura», eccetera, sono la chiave di lettura di un’incultura diffusa, che genera ulteriori mostri culturali, quelli edilizi compresi. I veri vincitori di questa vicenda sono stati i rivenditori di materiali per l’edilizia, i fornitori di inerti e di calcestruzzo, i rappresentanti della politica locale che hanno fornito complicità e sostegno all’attività illegittima e coloro i quali hanno costruito la propria carriera con il professionismo dell’antimafia. Le vere vittime, invece, sono gli abusivisti di necessità, il cui bisogno è stato strumentalizzato sia in fase di realizzazione delle opere che nella fase repressiva e sanzionatoria, in base alla regola in voga “dove c’è un problema c’è un’opportunità politica”. Il problema – è evidente – non si esaurisce nell’abusivismo edilizio in sé e per sé: la “civitas” – scriveva Sant’Agostino – non sta nei sassi, cioè nel calcestruzzo, ma negli uomini, nella qualità della classe dirigente.
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