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di ANDREA DI CONSOLI
LA VISITA MEDICA A CASA DI GIUSEPPE GIANFREDI
Michele Cannizzaro parla a questo punto del suo rapporto con Giuseppe Gianfredi, ucciso insieme alla moglie nel 1997:
«Io le dico tutte queste cose perché non ho mai avuto l’opportunità di raccontarle a un magistrato. La Procura di Salerno a me non mi ha mai convocato per un interrogatorio, né mi ha mai fatto una avviso di garanzia. Evidentemente non l’ha ritenuto necessario. Però la verità a qualcuno la devo pur raccontare, e quindi la racconto a lei. Io come conosco Giuseppe Gianfredi? Lo conosco perché ero il medico di famiglia di tutti i parenti di Gianfredi, compresi i proprietari del ristorante “La tettoia”. Lei mi dirà: ma a Potenza erano tutti miei pazienti? No, non tutti, ma a me si rivolgevano in tanti perché ero considerato un bravo medico, e avevano fiducia in me. Consideri poi che la famiglia di Gianfredi era una famiglia perbene, infatti il padre, Vincenzo, era molto conosciuto a Potenza, perché era il bidello storico del Liceo classico “Orazio Flacco”.
A un certo momento succede che il suocero di Gianfredi, tale Santarsiero, il nome non me lo ricordo, una persona molto facoltosa e molto benestante di Potenza, viene ad avere una cancrena diabetica al piede. Prima dell’amputazione del piede chiamano me, perché in ospedale avevano detto che bisognava amputare, e quindi mi chiamano i parenti di Gianfredi e mi chiedono: “Dottore, che dice, è d’accordo con questa diagnosi? Oppure riusciamo a fare diversamente?”.
Vado a casa del Santarsiero e gli visito il piede, e ritengo che ci fossero dei margini per non intervenire chirurgicamente, cioè per non amputare. Che cosa faccio a quel punto? Chiamo il Primario chirurgo dell’ospedale di Potenza, il dott. Gennaro Straziuso, e gli dico la situazione, che forse bisogna fare uno scucchiaiamento. Gli mando il suocero, ed effettivamente Straziuso gli fa lo scucchiaiamento.
Poi lo rimandano a casa con l’impegno che c’era un medico che lo andava a medicare tutte le sere. Parliamo del 1985, o del 1986, non ricordo bene. Dopodiché Gianfredi si reca presso il mio studio di radiologia, dove io lavoravo, per effettuare degli accertamenti sulla figlia, che purtroppo aveva una malformazione alla mano.
Dopodiché vengo chiamato anche in seguito a visitare la figlia, che all’epoca era piccolissima. Dopodiché le dico che all’infuori di queste occasioni professionali, io non mi sono mai frequentato con Gianfredi, e quando ci vedevamo per strada ci dicevamo “buongiorno” e basta. Nient’altro. Che cosa si verifica la sera prima dell’omicidio? Si verifica che io vado a fare una visita fiscale a una dipendente del San Carlo di fronte all’abitazione di Gianfredi, perché come le dicevo ero medico responsabile del personale del San Carlo.
Vado a fare questa visita intorno alle 18.50. Dal giardino della casa di Gianfredi mi vede passare il nipote di Gianfredi, che mi chiama e mi dice: “Dottore, vi dispiace venire un attimo a casa che c’è mio zio che ha problemi di salute e vi vuole chiedere un consiglio?”. Io gli dico: “Fammi fare questa visita e poi vengo”. Tenga conto che sulle visite fiscali c’è l’orario e la firma del paziente, è tutto documentato. Quindi risulta che io vado a fare a quell’ora una visita fiscale in quella via a una dipendente dell’ospedale, che ovviamente mette la firma sul referto. Dopodiché mi reco presso l’abitazione di Gianfredi.
A questo punto devo aprire una parentesi, e cioè: io all’epoca non ritenevo assolutamente che Gianfredi potesse essere un malavitoso, perché sapevo che nell’ambito dei parenti lui aveva addirittura il cognato che era in polizia a Potenza. Quindi entro a casa e mi siedo nel salotto con Gianfredi. E mi dice di un ricovero avuto in ospedale nei giorni precedenti presso l’ospedale di Potenza, perché aveva avuto una emorragia intestinale, patologia di cui non erano venuti a capo. Era comunque stato ben attenzionato dall’ospedale. Gianfredi era molto preoccupato. E io gli ho detto: “Bisogna fare altri accertamenti, perché non si può escludere nulla”. Non è che gli dico che ha un tumore o un’ulcera, gli dico solo la cosa più logica, cioè che deve farsi altri accertamenti. Era molto preoccupato, perché aveva paura di avere una brutta malattia.
Tenga presente che io sono stato in questa abitazione non più di 8 minuti, e questo è documentato, perché poi vado a fare una visita fiscale successiva. Nel mentre io parlo con questo Gianfredi, entra dalla porta un giovanotto che io non conoscevo, e quindi chiedo a Gianfredi chi fosse quel ragazzo. E Gianfredi mi dice: “E’ un mio nipote che lavora presso la Questura di Potenza”. Dopodiché saluto e me ne vado. Il giorno dopo ammazzano Gianfredi. Nei giorni successivi, mia moglie si interessa dell’omicidio Gianfredi perché era il magistrato di turno. Dopodiché arrivano 3 messaggi di morte ai giornali di Basilicata, dove dicevano che dovevano fare un attentato a mia moglie, a Riccio e a Rinaldi. Dopo qualche giorno mi chiama il Procuratore Cornetta per problemi di salute, e mi chiede cosa ne penso di queste minacce. Tenga conto che noi minacce di morte ne abbiamo avute molte, negli anni, e di tutti i tipi. Siamo sempre vissuti blindati.
Pensiamo, tanto per fare un esempio, a quello che dovevano fare a mia moglie gli Scarcia. Ma andiamo avanti. Dottor Di Consoli, le devo confessare una cosa. Sa che cosa mi dice qualche persona perbene di Potenza? Mi dice: e che ne sai se qualche mattina il figlio di Gianfredi non esce pazzo e pensa veramente che tu possa aver influito in qualche maniera sulla morte del padre? Capisce il danno che mi hanno fatto? E’ assurdo, assurdo!
E questo ce l’ha sulla coscienza don Marcello Cozzi. Non dovrei dirlo, ma è così. Quindi parlo con Cornetta e gli dico che le minacce sono sciocchezze, e quindi minimizzo. E gli dico pure che la sera prima per motivi professionali mi ero recato nell’abitazione di Gianfredi, anzi, lo dico anche alla polizia. Tutto questo poi è stato motivo di indagine. E hanno riscontrato tutto quello che avevo dichiarato. Sa però qual è stata la cosa raccapricciante? La cosa raccapricciante è che viene interrogato il nipote poliziotto di Gianfredi, il quale poliziotto dice, interrogato dai suoi stessi colleghi poliziotti: “Si dice che Cannizzaro sia un mafioso”. E io mi chiedo perché, perché si siano dette queste cose orrende sul mio conto».
MICHELE CANNIZZARO:O SI ODIA O SI AMA
Felicia Genovese interrompe il marito ed esprime un parere sul carattere del marito:
«Per capire mio marito bisogna chiedersi da dove viene tutta questa invidia. Per capire mio marito bisogna conoscere la sua storia personale e familiare. Mio marito era nella sua famiglia l’ultimo di tre figli, ed è l’unico che è si laureato, e che molto per volere del padre è diventato medico. E’ stato sempre un uomo al centro dell’attenzione, il punto di riferimento della sua e della mia famiglia.
E’ un uomo che si è sempre prestato per tutti con generosità, e che trova una sorta di compiacimento a prodigarsi per gli altri. Questo glielo dico con grande onestà. Quando ho conosciuto mio marito, una mia cugina mi ha detto: “Felicia, Michele o si ama o si odia”.
Mio marito non è una persona che passa inosservata, a volte è esageratamente presente e attento, e uno si chiede addirittura il perché. In una giornata, lo ha visto anche lei oggi, parla quasi sempre lui, io invece sono più di basso profilo. E quindi questo atteggiamento, quando dà dei risultati a livello professionale, può suscitare delle invidie, anche degli odi».
“CANNIZZARO E’ UN MAFIOSO”
Michele Cannizzaro riprende la parola:
«Parliamoci chiaro, io non voglio fare il portatore della bandiera dell’etica, non è nel mio costume. Nessuno è perfetto. Però io sono sempre cresciuto nel culto della legalità. Quando a mezzanotte, nel mio paese di origine, Laganadi, i carabinieri bussavano a alla porta di casa nostra e dicevano a mio padre: “Don Peppino, siamo venuti a fare un servizio in paese, ci fa mangiare qualcosa?” io li rispettavo moltissimo. E sin da bambino sono vissuto nel culto dei carabinieri.
Quando mia moglie è diventato Magistrato della Procura di Potenza io ho capito che dovevo rigare non dritto, ma drittissimo, sempre, in ogni circostanza, anche la più banale, perché sapevo bene che un mio errore si sarebbe riversato su di lei. Anche i miei figli sono cresciuti nel culto della legalità. Non ho mai subito un processo in vita mia. Mai! Sono pulito. Hanno anche cercato irregolarità nella mia attività all’Inps. Niente, niente, niente. Neanche una pensione d’invalidità è stata da me decisa in mancanza dei requisiti medici.
Non hanno trovato niente, mai!
Sa quanti incarichi avrei potuto assumere nella mia vita? Poiché però erano posti dove non sarei stato libero, ho sempre evitato. Non ho mai preso tessere di partito. Mai! Comunque, tornando a Gianfredi, la magistratura ha comprovato che io ho conosciuto Gianfredi solo per motivi professionali. Poi il poliziotto nipote di Gianfredi, interrogato successivamente da altre persone, dice: “Io ho detto che Cannizzaro era mafioso perché è una persona potente, capace, affermata”.
E le dirò di più: il poliziotto, Bonadies, si rivolge a Paternò, e gli dice che è stato indotto dagli ispettori di polizia a firmare quelle dichiarazioni contro di me.
Questo lo dice Paternò, lo scrive lui. Ed è tutto trascritto, tutto documentato. Anzi, le leggo un passo di quel che dichiara Bonadies: “Dissi che Cannizzaro era una persona in gamba. Lo chiesi a mio zio, e mi disse che era una persona in gamba e marito di un magistrato. Questo solo ho detto. Poi è venuto fuori che io avrei detto che Cannizzaro è mafioso. Io non ho detto niente, che poi loro facevano domande, risposte, tutto loro facevano”.
Anche Cappiello nel 1999 ha preparato un memoriale, che ha depositato, in cui diceva di essere stato indotto a dire quelle cose. Si è detto pure che io abbia avuto un violento litigio con Gianfredi: litigio iniziato nel mio studio e terminato nel contiguo ristorante “La tettoia”. Peccato che io sin dal 1996 avessi trasferito il mio studio in via Pretoria. E poi perché avrei dovuto litigare con il Gianfredi? Per i debiti di gioco come si dice? Ma lei lo sa da quanti anni non giocavo più a poker? Lei lo sa che nella mia vita non ho mai avuto debiti?».
IL VIZIO DEL POKER E I MOVIMENTI BANCARI
Cannizzaro spiega la sua passione per il gioco:
«Sì, sono stato un giocatore di poker fino alla metà degli anni ’80. Puntate massime: 1 milione di lire. Mai avuto debiti in vita mia. Basta andare a vedere i miei conti correnti presenti e passati. Poiché Potenza è un piccolo gioco, sa quando decisi di smettere di giocare a poker? Quando mia moglie diventa magistrato, alla fine degli anni ’80. Per evitare ogni collegamento, ogni amicizia troppo stretta con qualcuno. Quando la Dia di Salerno ha fatto le indagini sulle dichiarazioni di Cappiello, io ero un importante investitore di borsa. Ero un investitore che agiva sempre tramite la consulenza delle banche.
Tenga presente che tutte quelle operazioni non vengono fatte con una sola lira di contanti. Tutte le operazioni erano: conto corrente-vendita titoli-conto corrente. C’è stato un ingente movimento virtuale puramente cartaceo. Le faccio un esempio.
Se annusavo dei buoni affari, davo subito mandato alla banca di comprare un derivato. Se costava 1 milione, a garanzia bisognava mettere 100 milioni, però erano 100 milioni virtuali, perché c’era una garanzia virtuale sul conto corrente interno alla banca dove risultava che Cannizzaro poteva garantire, ma io al massimo potevo perdere 1 milione. Era un movimento vertiginoso, ma totalmente virtuale. Ho guadagnato parecchio in borsa, soprattutto nel 98. Ma tutto è avvenuto alla luce del sole».
FINE DEL VIAGGIO:IL CASO ELISA CLAPS,UN RIEPILOGO (di Andrea Di Consoli)
Cos’è più difficile, per un giornalista o per un “intellettuale”: criticare frontalmente sempre e comunque il potere (e quindi stare pacificamente dalla parte giusta), oppure tentare di raccontarlo, di capirlo, di distinguerlo tra “buono” e “cattivo”? Siamo abituati a considerare il potere in maniera avversa; ma siamo sicuri che la critica preventiva del potere non sia segno di superficialità e di viltà? Quanto coraggio ci vuole per difendere il potere ingiustamente accusato?
Nel 1999 un “piccolo” pentito della malavita locale, Gennaro Cappiello, classe 1971, uno che era stato arrestato per un’estorsione alla “Prénatal” (quindi un malvivente, non un mafioso), decide di pentirsi, e dice agli inquirenti tutto quello che sa. E colpisce al cuore Michele Cannizzaro, marito del Pm Felicia Genovese (la quale dava fastidio a troppe persone, Cappiello incluso, con le sue sobrie e incisive inchieste). Cosa dice di Cannizzaro il Cappiello?
Dice che Cannizzaro sarebbe pesantemente coinvolto nella scomparsa di Elisa Claps. Ma Cappiello non ha le idee chiare. Dice che il padre di Restivo, Maurizio Restivo, avrebbe dato un assegno di 100 milioni di lire a Cannizzaro affinché lo aiutasse a far scomparire il corpo di Elisa Claps (poi sostiene di non essere sicuro che sia stato pagato con un assegno). Ma la versione è anche un’altra: Maurizio Restivo si sarebbe rivolto a Cannizzaro affinché intercedesse presso la moglie, titolare delle indagini sulla scomparsa di Elisa.
C’è solo un piccolo particolare: Michele Cannizzaro non ha mai conosciuto in vita sua Maurizio Restivo. Ma, soprattutto, Michele Cannizzaro è molto ricco, perché è leader della sanità privata, e quindi non ha certo bisogno di soldi sporchi. Ma ce lo vedete uno dei medici più stimati e conosciuti di Potenza accettare un assegno di 100 milioni per far scomparire un corpo assassinato? Perché Cappiello mette in mezzo Cannizzaro? Ovviamente perché è il marito della Genovese, ma soprattutto perché Cannizzaro è di origini calabresi (di Laganadi, in provincia di Reggio Calabria), e per qualcuno basta questo per considerarlo un personaggio legato alle ‘ndrine calabresi.
Si tenga poi conto che Cannizzaro è stato il medico di famiglia di Cappiello, e quindi lo ha visto crescere.
Ma in che modo Cannizzaro avrebbe “provveduto” a far scomparire il corpo di Elisa? Chiedendo ai suoi “amici” calabresi (salvo aver lasciato la Calabria nel 1970) di farlo sciogliere nell’acido, oppure di murarlo in qualche pilastro dei cantieri della scala mobile di Potenza. Tutte accuse assurde e senza fondamento, ma che potrebbero capitare a chiunque, a questo punto.
Ma c’è di più. Cappiello dice anche che Cannizzaro sarebbe stato il mandante dell’omicidio Gianfredi. E quale prova porta per avvalorare questa tesi? Il fatto che la sera del 28 aprile (la sera prima del duplice omicidio), per ragioni del tutto casuali, il medico Cannizzaro avrebbe parlato per 10 minuti con il Gianfredi. Perché Cannizzaro avrebbe ordinato l’omicidio Gianfredi-Santarsiero? Si dice: per motivi di debiti di gioco. Peccato che Cannizzaro sia ricchissimo, e peccato che non giochi più a poker (puntate massime: un milione) da almeno 20 anni.
Nonostante la famiglia Genovese-Cannizzaro viva perennemente sotto scorta, con i carabinieri e la polizia sotto casa, qualcuno pensa di dipingerli come “anime nere” del potere lucano. Le cose purtroppo non stanno così. Cannizzaro non è mai stato rinviato a giudizio per nessuna di queste accuse, mentre Cappiello ha perduto lo status di pentito protetto dallo Stato. Ma questo nessuno lo dice.
Qualche moralizzatore a cottimo sostiene che Michele Cannizzaro sia un adepto della loggia massonica “Mario Pagano” di Potenza. Cannizzaro non smentisce di aver partecipato a due o tre riunioni di questa loggia all’inizio degli anni Novanta, ma sostiene anche di aver capito che era una stupida perdita tempo, ottenendo in poco tempo il decreto di “assonnamento” dalla loggia. E rimane comunque il fatto che Maurizio Restivo non ha mai fatto parte della massoneria, e che mai il Cannizzaro ha avuto modo di conoscerlo. Quindi nessun “affratellamento” di sangue tra i due.
Sostiene Cannizzaro: «Le dirò di più: durante le dichiarazioni, Cappiello asserisce di essere stato a casa mia negli anni precedenti, ma nessuno gli chiede com’era fatta la mia casa all’interno. Ma la cosa più assurda è quando lui dichiara di avermi incontrato all’Ubs di Lugano. Ma io a Lugano non ci sono mai stato in vita mia! Al massimo, da studente universitario di medicina a Pavia, sono andato a comprare le sigarette a Ponte Chiasso. Infine lui dichiara che io avevo fatto un prelievo in una filiale di Potenza di 300 milioni di lire. Peccato che io in quella banca non c’ero mai stato. Io non faccio mai operazioni in contanti. Tenga poi conto che io in quel periodo avevo sul mio conto circa due miliardi di lire. Purtroppo, per tutelarmi, sono costretto a dire le cose come stanno».
Insomma, le accuse infamanti, assurde e sempre smentite a Michele Cannizzaro – e, di rimando, a Felicia Genovese, sospettata di essere stata “morbida” (nonostante lo abbia arrestato) con Danilo Restivo in quanto il marito avrebbe “eliminato” il corpo di Elisa Claps dietro lauto compenso – diventano immediatamente di dominio pubblico, e diventano, purtroppo, anche squallide chiacchiere da bar. Ma, soprattutto, le accuse di Cappiello a Cannizzaro rappresentano le prove generali del reboante “caso Basilicata” scoppiato presso la Procura di Potenza e di Catanzaro qualche anno dopo (Woodcock, De Magistris, ecc.).
L’unica cosa certa è che dopo 10 anni di vane intercettazioni, inchieste, sospetti a carico di Felicia Genovese e di Michele Cannizzaro, la giustizia ha perso molto tempo, moltissimi soldi (a quando una comparazione tra soldi spesi e il numero delle sentenze di condanna passate in giudicato?), e ha fatto un favore ai versi responsabili della scomparsa (e, probabilmente, della morte) di Elisa Claps.
Oggi che Michele Cannizzaro è fuori da ogni indagine a suo carico, ha deciso finalmente di parlare, e di spiegare i veri motivi per cui Cappiello lo ha accusato. Ma tutti i magistrati hanno paura delle sue parole, e fanno finta di niente. Dopo centinaia di indagini a strascico, e migliaia di intercettazioni per cercare il reato e non per avvalorarlo, oggi il silenzio della Magistratura è assordante. Ma Michele Cannizzaro – ripeto, mai rinviato a giudizio, e quindi mai condannato -, dopo aver vista distruggere la sua reputazione, ha deciso di rompere il silenzio. Con la speranza che emerga tutta, tutta, proprio tutta la verità.
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