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di ANDREA DI CONSOLI

“MICHELE, APRI GLI OCCHI”
Parla Michele Cannizzaro:
«Già per il primo concorso che faccio in ospedale sono costretto a scrivere questa famosa lettera dove racconto la visita del professor Gaetano Fierro. Tenga presente che nella sanità italiana gran parte delle inchieste nascono proprio in sede di nomine. Io quindi dico di no a parte della giunta regionale. E risolvo in piena autonomia il problema della cardiochirurgia, che ritorna a essere un grande riferimento sanitario del contro-sud.
Risolvo anche il problema della migrazione sanitaria grazie al professor Caparrotti, e risano il bilancio del San Carlo in un solo anno. Poi portiamo la produzione delle attività ospedaliere da una cifra storica che si era consolidata a 93 milioni fino alla cifra record di 108 milioni di euro, quindi incrementiamo la produzione di 15 milioni di euro.
Tenga conto che c’era pure il blocco delle assunzioni, e quindi faccio tutto questo con lo stesso personale di prima. Devo anche ricordare di aver abbattuto le liste di attesa, risolto i contenziosi e tagliato le consulenze faraoniche che c’erano prima.
Un’altra cosa che ho fatto riguardava il bar dell’ospedale, che prima del mio arrivo pagava 75 milioni di fitto, mentre io l’ho appaltato a 225 mila euro all’anno. Insomma, l’ospedale San Carlo era entrato nel circuito nazionale, con riconoscimenti importanti della stampa, come per esempio “Panorama sanità”.
Si consideri poi che il tribunale del malato espresse un alto indice di gradimento. Cannizzaro quindi viene riconosciuto in maniera positiva dalla stampa e dalle istituzioni e dal Governo nazionale di centro-destra, che definisce in commissione sanità il San Carlo “la perla del Mezzogiorno”. A quel punto, arriviamo all’estate del 2006. Sulla rivista “Micromega” esce il primo articolo di Marco Travaglio che fa un attacco generalizzato alle istituzioni della Basilicata, compreso il presidente Giorgio Napolitano. Questo articolo di “Micromega”, nei mesi successivi, viene divulgato in tutta la città di Potenza, e viene fotocopiato, viene volantinato, sia nell’azienda ospedaliera che nel palazzo di giustizia.
Noi eravamo implicati in quell’articolo per la vicenda Panio. Il 3 febbraio del 2007 il “Quotidiano della Calabria” e il “Quotidiano della Basilicata”, insieme, pubblicano la notizia di questo “lauto pranzo” che io avrei avuto con esponenti della ‘ndrangheta, collegandolo a indagini fatte da Catanzaro sulla proposta di nomina di mia moglie alla Commissione antimafia proposta da Nicola Buccico, e collegandolo con delle interrogazioni parlamentari effettuate da un senatore di An nei confronti di De Magistris. Il “Quotidiano della Calabria” intitola la notizia “Un filo invisibile lega la Calabria alla Basilicata”, mentre il “Quotidiano della Basilicata”, che forse sospettava l’assurdità della notizia, titola l’articolo in maniera più dolce. Dopo l’articolo di “Micromega” io registro subito un allontanamento con il dott. Galante, perché prima andavo sempre a caccia con lui. A quel punto il dott. Strippoli mi manda un sms.
Era il ferragosto del 2006. E mi scrive: “Michele, occhi aperti”. Ma io non capisco cosa voglia dire in questo messaggio. Nel marzo del 2007 io sono intercettato all’ospedale. Ma ovviamente non lo sapevo. Il dott. Strippoli viene in ospedale per un convegno e io chiaramente gli chiedo il senso di quell’sms. E lui mi informa che il dott. Montemurro e il dott. Galante mi stanno costruendo una trappola per un pranzo che avrei avuto con dei mafiosi. E tutto pensavo tranne che potessi essere intercettato. Quindi ho la prova provata di un meccanismo di congetture contro di noi, ordito anche da parte della magistratura».
IL “LAUTO PRANZO” CON I MAFIOSI CALABRESI
Sempre Cannizzaro:
«Qual è la verità del “lauto pranzo”? Io ho una casetta con una sola stanza a Laganadi, mio paese di origine in Calabria. E’ una casetta di campagna, adiacente a una strada di grande traffico. Che cosa succede nel mese di maggio del 1992?
Io non so se lei ha mai sentito parlare della caccia tradizione al falco pecchiaiolo in Calabria. E’ una caccia sociale, molto diffusa in Calabria, che avveniva quando c’era la migrazione degli uccelli rapaci che dall’Africa, attraverso lo Stretto di Messina, si portavano, per nidificare, verso le montagne del Nord Europa. E questo aveva comportato una caccia molto radicata in Calabria, fino a quando poi questa caccia non è stata proibita.
Il passaggio di questi falchi attirava l’attenzione di tutti: dei bambini, dei vecchi, anche dei non cacciatori. Il giorno in cui si è verificata questa visita dei carabinieri presso la mia abitazione di Laganadi, si è verificata una straordinaria migrazione di questi falchi. Poiché questa casetta è un punto di avvistamento strategico, perché guarda tutto lo Stretto di Messina, aveva concentrato in quel punto la presenza di tantissima gente che arrivava con la macchina e si fermava a guadare. Il maresciallo dei carabinieri di Laganadi, passando davanti a questa casettina, si era fermato per salutarmi, e si ferma a lungo a parlare con tutte le persone che erano riunite lì.
Ma soprattutto arriva alle 5 del pomeriggio, e non entra mai nella mia abitazione. Solo dall’esterno vede questo tavolino dove c’erano le vettovaglie, perché io quel giorno avevo consumato un pranzo con mio padre, mia sorella, alcuni parenti, e dei bambini della zona. Nessun pregiudicato era mai entrato in quella mia casetta di campagna. Ma come nasce questa storia del “lauto pranzo”?
Allora, quel giorno arrivano i carabinieri, e non chiedono i documenti, vengono solo per vedere gli uccelli, e si mettono a chiacchierare con me, visto che li conoscevo. Si fermano fino alle ore 19 a chiacchierare con me, e gli offro pure il caffè. Alle ore 19 i falchi, poiché stava per arrivare l’oscurità, interrompono il loro viaggio e si poggiano sugli alberi. Improvvisamente i carabinieri mi salutano e se ne vanno; e se ne vanno proprio nei boschi dove gli uccelli si erano posati.
La notte questi stessi carabinieri fermano il sindaco del comune di Calanna con il figlio, perché avevano abusivamente abbattuto dei falchi pecchiaioli. Quindi perché i carabinieri si sono fermati da me per ben due ore? Perché tenevano d’occhio il sindaco, perché sapevano che lui con il figlio sparavano abusivamente i falchi. La mattina li fermano e li portano in caserma. Quindi mi viene naturale pensare che il maresciallo si sia fermato due ore per tenere d’occhio questi due. Tenga presente che quel giorno nel giardino davanti casa mia c’erano moltissime persone, e solo poi, quando ho visto gli atti, ho scoperto che alcuni di questi personaggi, che abitavano a poche centinaia di metri dalla mia casetta e che quindi erano residenti proprio lì, avevano precedenti penali.
Ma uno aveva precedenti penali per frode in commercio di olio, un altro per aver fatto assegni a vuoto, un altro era stato condannato per omicidio passionale nel 1952. I carabinieri scrivono addirittura che questo signore si era inserito perfettamente nell’ambiente sociale, tanto che gli avevano anche dato il porto d’armi. E gli stessi carabinieri confermano che era una persona perbene. Poi c’erano anche un consigliere comunale di Calanna con precedenti penali per costruzione abusiva. Infine c’era un altro soggetto, e qui per onestà le devo dire i fatti. Questo signor Greco apparteneva a una famiglia di imprenditori edili, che poi erano stati accusati di essere affiliati alla ‘ndrangheta, e non erano del mio paese.
Tenga conto che nello spiazzo c’erano almeno altre 40 persone incensurate. Quando i carabinieri di Calanna fermano il sindaco e il figlio, e purtroppo succede il putiferio: scoppia una guerra tra il sindaco e i carabinieri. I carabinieri di Calanna redigono questo verbale di servizio dove dicono quello che hanno fatto e quello che hanno visto quel giorno davanti casa mia. E la relazione dei carabinieri fotografa esattamente la situazione di quel giorno. Quando Cappiello fa tutte le dichiarazioni a Salerno, che cosa succede? Che la Procura di Salerno svolge tutta una serie di attività investigative nei nostri confronti.
A un certo momento, quando la Procura di Salerno si trova questa relazione dei carabinieri, manda a chiamare il carabiniere e il maresciallo, e li interroga. Che cosa succede? Che nel frattempo, sempre nel 1999, i carabinieri chiedono informazione al comando provinciale di Reggio Calabria. In questa relazione i carabinieri scrivono: “Cannizzaro Michele, medico, sposato con un magistrato, manca dalla Calabria dal 1970, viene saltuariamente nel paese di Laganadi, è persona di ottime qualità morali, e di ottime qualità sociali, non frequenta in alcun modo pregiudicati”.
E mandano questa relazione a Salerno. Io dove vengo a sapere che queste persone erano pregiudicate? Dagli atti di Salerno. Non contenta, la Procura di Salerno convoca il maresciallo e il carabiniere e li interroga. E loro confermano che queste persone non erano a casa mia, ma fuori, insieme a tutti gli altri. Confermano anche che quel giorno non hanno fatto nessuno controllo, e non hanno chiesto a nessuno i documenti. Dottor Di Consoli, di quale “lauto pranzo” stiamo parlando? Giuseppe Greco per me era un imprenditore, era lì insieme a tutti gli altri. Tenga presente che quando io sono andato via dal mio paese, il Greco poteva avere 12 anni. Non sapevo che i suoi familiari erano mafiosi. Le ripeto, tutte queste persone stavano lì per un fatto fortuito, per il passaggio dei falchi pecchiaioli.
Dottore, erano poveri disgraziati, cosa dovevo fare con loro? Erano persone semplici, piccoli pregiudicati, mi dice che vantaggi avrei dovuto trarre da queste persone?».
LA MASSONERIA
A questo punto Cannizzaro parla del suo rapporto con la Loggia massonica “Mario Pagano” di Potenza:
«All’inizio degli anni ’90 ero un socio del “Lion’s club”. Nell’ambito del “Lion’s” alcuni amici medici di Potenza mi dicono: “Tu sei molto apprezzato nell’ambiente. Sai, siamo un gruppo di persone che frequentano la loggia “Mario Pagano”. E’ la massoneria ufficiale, niente di segreto. E’ tutto alla luce del sole. Ci farebbe piacere che tu partecipassi a qualche riunione”.
Io, più che altro incuriosito da questa cosa, partecipo a qualche riunione, dove conosco un po’ di medici, medici per bene, e professionisti affermati, e un avvocato molto anziano, un dipendente dell’allora Sip, e un concessionario di macchine. Queste sono le persone che ho conosciuto in queste tre o quattro riunioni a cui ho partecipato.
Parlavamo della massoneria, dello spirito della massoneria, ecc. Poi, un po’ perché ero impegnato con il lavoro, un po’ perché mi era sembrata solo una perdita di tempo, faccio una lettera dove dico: “Guardate, i vostri sono argomenti che a me non interessano, per cui chiedo di essere cancellato da questa lista”.
Dopo 3 o 4 mesi da questa lettera mi arriva una comunicazione del Grande Oriente d’Italia, datata marzo 1994, in cui mi si dice: “Gentile dott. Cannizzaro, è stata accolta la sua richiesta di assonnamento, di cancellazione dalla “Mario Pagano”. Le dico anche che in questo breve periodo non ho mai conosciuto altri massoni della Basilicata, né ho conosciuto altri massoni d’Italia, né ho mai partecipato a cene o a riunioni altrove.
Per cui finisce lì la mia brevissima storia di frequentazione di questa Loggia.
Ritengo che molte persone si iscrivano alla massoneria con il segreto desiderio di fare carriera. Questa è la favola che si racconta. Ma io non avevo concorsi da fare, né avevo carriere da realizzare. Ero un superprofessionista affermato.
Sennonché nella seconda metà del 2006 il giornale “Controsenso” pubblica una lista di massoni tra cui c’è il mio nome, e dice che appartengo alla “Lista Cordova 92”, insieme a tante altre persone. Tra l’altro io il l 90% di queste persone non le conoscevo né di nome né di vista. Dopodiché quando esce questo articolo, siccome ero direttore del San Carlo, faccio una lettera alle varie istituzioni della Basilicata dove dico che è vero che mi ero iscritto alla massoneria, ma dico pure che dopo pochi mesi mi ero dimesso. E allego il decreto di assonnamento. Tenga presente che io dal ’94 in poi non ho mai avuto contatti con la massoneria, né ne ho più parlato con i medici che vi erano iscritti. Per me era finita là. Scrivo questa lettera, e nessuno mi risponde e nessuno mi convoca.
Faccio un inciso: in questa lista c’era anche l’avvocato Labriola di Matera. E mi creda: con Labriola io non ci ho mai parlato in vita mia, non siamo mai andati a cena insieme, mai avuto rapporti di nessun tipo. Né io ho mai saputo che Maurizio Restivo, che non ho mai conosciuto in vita mia, era massone. E infatti in quella lista non compariva. Di cosa stiamo parlando?».
IL PENTITO GENNARO CAPPIELLO
A questo punto Cannizzaro racconta la sua versione sul pentito Gennaro Cappiello:
«Io sono stato medico di famiglia della famiglia Cappiello. Loro sono di Potenza. Per cui lui e il fratello io li ho visti sin da bambini. Poi che cosa è successo? Succede che lui di colpo sale agli onori della cronaca giudiziaria per una estorsione fatta al negozio “Prènatal” di Potenza, dove lo arrestarono in flagranza di reato mentre ritirava i soldi.
Mia moglie, come magistrato di turno, convalidò l’arresto di Cappiello. Dopodiché, quando questo Cappiello assurge agli onori della cronaca, io chiaramente incomincio ad essere molto attento, anche se dopo questa vicenda non ho mai più avuto rapporti con lui. Consideri che la madre di Cappiello veniva sempre nel mio studio anche in quel periodo, perché aveva una malattia cronica.
Nell’anno 1999 Cappiello incomincia ad avere questa collaborazione con la forza di polizia mentre era agli arresti domiciliari per estorsione. Cappiello era un malvivente, non un mafioso di rilievo. Che cosa fa? Tenga conto che non avevo mai avuto un litigio con lui. Mai! Nè era mai venuto nel mio studio negli ultimi anni. Lui comincia a colloquiare con i carabinieri, con il maggiore Salvino Paternò, il quale ha registrato tutta una serie di colloqui che intratteneva con questo personaggio.
E leggendo gli atti ho rilevato che questo Cappiello si lamentava con Paternò del fatto che alcuni elementi della polizia di Stato gli facevano delle pressioni affinché accusasse me e mia moglie di aver perpetrato degli illeciti, specificatamente alla vicenda Gianfredi.
Ma lui ripetutamente diceva a Paternò: “Io non so niente, ma questi cosa vogliono da me?” Questi colloqui tra Paternò e Cappiello sono tutti registrati».
UNA STORIA DI VELENI
A questo punto interviene Felicia Genovese:
«Le ragioni del comportamento della polizia sono in questo appunto redatto da Paternò, che parla dell’attività di delegittimazione orchestrata ai danni della dottoressa Genovese.
All’inizio ero io il bersaglio, ma perché?
Allora, proviamo a ricostruire. Io sono stata nella Direzione distrettuale antimafia dal ’91 al ’97. Che è successo nel ’97? Lei sa che nella Direzione distrettuale antimafia si può stare per tre bienni consecutivi, mentre per il quarto biennio ci può essere una proroga per eccezionali esigenze di indagini, cosa che normalmente si fa. Ricordo che ero entrata nella Direzione nel 1991. Che succede nel luglio del ’97? L’omicidio Gianfredi è del 29 aprile 97. In quel momento io ero magistrato all’apice, notissima nella Dda della Basilicata, e anche conosciuta a livello nazionale, perché ero componente della Commissione parlamentare antimafia sotto la direzione di Nichi Vendola. All’epoca io facevo relazioni al Csm, ero in una posizione di trampolino di lancio.
Quindi in quel momento c’era qualcuno a cui dava fastidio la mia posizione, per cui nel ’97, dopo l’omicidio Gianfredi, di questo omicidio ha approfittato chi aveva velleità di carrierismo, magistrati che davano del “tu” ai delinquenti, cosa che con me non è mai accaduta. Hanno utilizzato Cappiello dicendogli: “Guarda che è la Genovese che ti vuole fregare, ti vuole arrestare per l’omicidio Gianfredi”.
A Cappiello, a quel punto, è stata garantita l’impunità. L’omicidio Gianfredi avviene nel 1997.
Iniziano le indagini. Poiché era un omicidio di stampo mafioso per le modalità in cui era avvenuto, quando capita una cosa di questo genere, e a Potenza una cosa così non era mai capitata, è chiaro che tutte le forze dell’ordine cercano di capire cosa sia accaduto. Cosa succede? Nell’arco di questo periodo i carabinieri ricevono una lettera anonima nella quale si dice: “Guardate che Gianfredi è stato ucciso perché ha preso a mazzate Cappiello per una vicenda relativa a una estorsione. Su questa vicenda potrebbe darvi indicazioni tal Martinelli e tal Guglielmi”.
I carabinieri mi chiamano e mi dicono: “E’ arrivata questa lettera, che dobbiamo fare? Abbiamo in caserma Martinelli e Guglielmi, che facciamo?” E io dico: “Andate avanti, e poi mi date la comunicazione”. Ci tengo a precisare sempre una cosa: io non sono un poliziotto, ma un magistrato.
Però in quell’occasione dico anche: “Diamo comunicazione anche alla polizia, perché è la polizia che sta facendo le indagini”. Dalla caserma telefono al dottore Riccio, che all’epoca dirigeva la squadra mobile, ed è uno di quelli che ha fatto la sua parte in questa storia. E gli dico: “Dottore, si sta verificando questo e questo”. Che succede il lunedì mattina?
Il lunedì il dott. Riccio scrive una lettera al magistrato dott. Erminio Rinaldi, che stava facendo indagini su associazione a delinquere di stampo mafioso in cui era coinvolto anche Gianfredi. E Riccio scrive a Rinaldi: “Ti chiediamo di chiedere alla dottoressa Genovese questa documentazione per allegarla alla richiesta di custodia cautelare da mandare al Gip”. Quindi Rinaldi mi chiama e mi dice in dialetto napoletano: “Damm’ ‘e carte”.
E io: “Guarda Erminio, io le carte te le posso anche dare, ma noi non possiamo fare una discovery in un procedimento dove molto probabilmente riusciamo a colpire il responsabile di un omicidio”.
E gli dissi pure che c’era questa attività nei confronti di Cappiello. Nel frattempo i carabinieri hanno presentato a noi una informativa in cui denunciavano come mandante dell’omicidio proprio Cappiello. E quindi io faccio una doverosa iscrizione a carico di Cappiello come mandante di omicidio. A quel punto andiamo davanti al Procuratore, Gelsomino Cornetta, e ci presentiamo io con i carabinieri, mentre Rinaldi con i personaggi della polizia, quelli che sono stati miei nemici per tutto questo tempo, e che si sono inventati tutte le cose su Gianfredi e su Elisa Claps.
Il Procuratore, che era saggio e intelligente, dice: “Scusa Erminio, ma per quale motivo dobbiamo fare questo?”. E gli dice una frase rivelatrice: “Ma se questa richiesta di misura cautelare è una porcheria, ritirala e basta”. E quella è stata la mia condanna!
Che cosa dice Cappiello nei suoi colloqui? Dice: “Sì, io lo volevo ammazzare il Gianfredi, l’ho anche pedinato, ma non l’ho ucciso io”.
Ma santo Dio! Anche una bambina, se avesse letto una cosa del genere, si sarebbe posta il dubbio: ma perché questo collabora? Come può essere credibile un personaggio del genere?».
2/continua

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