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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Nei giorni scorsi i quotidiani sono stati occupati dalle dichiarazioni di Totò Riina relative a un coinvolgimento diretto delle istituzioni nell’omicidio di Paolo Borsellino (“Sono stati loro”). È tale la sfiducia generalizzata nei confronti delle istituzioni che molti hanno ritenuto plausibile l’accusa, senza neanche domandarsi che interesse potesse avere il “capo dei capi” mafiosi ad accennare a una “verità”, divenendo improvvisamente loquace, egli noto per il mutismo nel quale si è asserragliato per decenni, egli che era solito ripetere ai suoi: «la curiosità è l’anticamera della sbirritudine». Dovrebbe essere inutile ricordare il disprezzo riservato nel gergo mafioso al termine “sbirro” e a tutti gli altri a esso comunque collegati. La letteratura scientifica ha messo in risalto come la segretezza, il riserbo, il silenzio siano tratti essenziali della cultura mafiosa, come essi sostanzino norme di comportamento sottraendosi alle quali si è puniti con assoluta severità, quando non con ferocia. E allora, perché tanta loquacità di Totò Riina? Ha senso prenderlo sul serio e ritenere oro colato le sue parole? Perché entrare nel gioco condotto dallo stesso Riina con la trama delle sue allusioni, dei suoi ricatti, delle sue insinuazioni? Altra cosa è impegnarsi a individuare quelle zone oscure nelle quali troppo spesso, e troppo colpevolmente, sono stati irretiti servizi, più o meno segreti, mafiosi, loro richieste e offerte, secondo logiche quasi sempre criminali, quasi sempre eversive. In ogni caso, dovremmo prendere atto che della mafia, come della camorra, come della ‘ndrangheta non sappiamo molto, dobbiamo ancora studiarle. Senza cedimenti, senza sosta, senza presunzione, senza facilismi. Cosa più agevole da dire che da fare. Due anni fa, proprio perché convinti della necessità di indagini antropologiche adeguate, sulla scia di alcune notazioni di Fulvio Librandi apparse su questo giornale, lo stesso Librandi e io, con il sostegno tecnico dell’associazione Antigone coordinato da Claudio La Camera e l’appoggio dell’assessorato alle politiche sociali della Provincia di Reggio Calabria, tenuto da Attilio Tucci, elaborammo il progetto di un “Museo della ‘ndrangheta” da istituire nella Città sullo Stretto. Il progetto trovò l’appoggio convinto del prefetto di Reggio Calabria, dottor Musolino, e l’interesse della Regione Calabria, in particolare dell’assessore Naccari Carlizzi. Tale progetto venne presentato in diverse occasioni, sia, ovviamente, a Reggio Calabria che in altre città italiane e di altri Paesi, quali, ad esempio, la Germania, dove si svolse lo scorso anno a Berlino un incontro con i direttori di istituzioni museografiche e associazioni tedesche. Il Museo della ‘ndrangheta doveva costituire, come ho avuto più volte occasione di ribadire anche in questa rubrica, essenzialmente un centro propulsore di ricerche e raccolta dati sulla realtà mafiosa, sulla cultura nell’accezione antropologica da essa elaborata, sui valori, sui modelli di comportamento della società civile calabrese, nelle sue varie articolazioni, comprese quelle non coinvolte direttamente dall’universo mafioso. La mafia, come ho avuto modo più volte di sottolineare in saggi e articoli, prospera declinandosi in tre cerchi concentrici: il primo è dato dai mafiosi, che perseguono con mezzi criminali i loro obiettivi, tesi all’acquisizione, al mantenimento e alla crescita di sempre maggiori potenza, ricchezza, prestigio. Attorno a tale cerchio se ne disegna un altro, molto più vasto, composto da persone che per la loro attività sono costrette a entrare in contatto con i mafiosi pur non avendo in comune con loro comportamenti e finalità. Infine, è individuabile un terzo e molto più ampio cerchio, composto da quanti né sono mafiosi, né sono in contatto con loro, che anzi li evitano ritenendoli però male necessario e immodificabile. Quali sono gli scenari culturali, i modelli, gli universi simbolici, i valori dei componenti questi tre diversissimi cerchi? Quali ricerche si sono svolte in questa direzione? Si tratta di un territorio da esplorare senza pregiudizi o preliminare propensione alla condanna, ma con forte impegno conoscitivo e rigorosa metodologia. Questo ordine di ricerche – che nel caso concreto ritenni opportuno da svolgere essenzialmente nel microcosmo di una comunità calabrese del Reggino – fu da me impostato, ampiamente illustrato e approfondito nel luglio del 2008 a Palmi, nel corso di un seminario preparatorio dell’équipe da me coordinata, comprendente lo stesso Fulvio Librandi con i suoi collaboratori Valentina Carvelli e Davide Scotta (Università della Calabria), Maria Teresa Milicia (Università di Padova), Rosa Parisi (Università di Foggia), Maria Pascuzzi (Università Mediterranea di Reggio Calabria). Sempre la scorsa estate furono eseguiti alcuni sopralluoghi conoscitivi a Seminara e furono affidati ai componenti dell’équipe i diversi segmenti della ricerca. Essa venne sospesa per assoluta assenza dei fondi necessari per il proseguimento dei lavori, che potranno riprendere soltanto quando saranno disponibili i mezzi indispensabili. Il Museo della ‘ndrangheta – nonostante alcuni significativi risultati, quali la destinazione di un immobile confiscato alla ‘ndrangheta a sede del Museo e alcune iniziative pedagogiche – non solo non può considerarsi di fatto esistente, ma in assenza di quell’attività di ricerca e di studio che ne è stata l’ispirazione fondamentale, il tratto caratterizzante, dovrebbe segnalare con rammarico il proprio fallimento.
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