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di FRANCO CRISPINI
Come si ricorderà, con Veltroni c’era stata una attesa dai toni messianici, il Lingotto, le trionfali primarie. Comunque, nessuna competizione vera per la candidatura. Poi venne il resto che sciolse le lingue e accumulò delusioni. Ora è diverso, si inclina al realismo, non si punta a una figura mitica, si vuole una politica e non una “visione” (Weber diceva: chi cerca una “visione” vada al cinema !). Quale fiume di parole immaginifiche: partito “fluido”, post-partito, post- ideologico! E ora si torna indietro: iscritti, gruppi, correnti? La discussione al centro (“enorme”, come dice D’Alema) e tra gli “indistruttibili” (i pilastri dell’apparato), è su altro e comunque non sembra riguardare lo status da dare a un partito (o non partito) scricchiolante e senescente; in periferia (“quasi niente”, ancora D’Alema), poi, una corsa per essere con il vincente e poi nessun altro pensiero. Con i tre candidati scesi in campo, c’è da discutere all’infinito delle loro qualità individuali e di tutto quanto ne può dare il leader desiderato. E difatti, un sopravvissuto culto della personalità, sembra ancora voler far discendere dal profilo del capo tutte le possibilità di azione del partito. Dappertutto che si voglia guardare, è un gran movimento per schierarsi con l’uno o con l’altro, soprattutto con quello che si dà per scontato che raccoglierà più consensi nelle primarie. Ogni volta è così e il nuovo partito ne fa le spese perché sconta logore prassi ereditate che già in passato alteravano il significato democratico dei congressi e li riducevano ad assemblee che badavano soprattutto alla divisione del potere interno: questo ovviamente nel progressivo degrado cui è andato soggetto un strumento importante, quale è l’assise congressuale. A quel che sembra, l’attesa è stata tutta per le candidature che sono state avanzate con le proposte dei tre leader, Franceschini, Bersani, Marino, le quali a dire il vero, rispetto ad almeno tre questioni – segretario e futuro premier, alleanze o mantenimento della veltroniana “vocazione maggioritaria”, laicità dello Stato -, hanno punti di diversità certamente. Questioni che con ogni evidenza sono determinanti e discriminanti e se in tutto il corpo del partito venissero criticamente discusse, più che semplicemente accettate come insegne di schieramenti diversi, se si arrivasse a individuare soluzioni che facessero da tramite con quello che pensa la gente, se insomma valessero ad animare un partito spento, neghittoso e inerte che concepisce la preparazione al Congresso come una prova di astuzie e di tattiche per avere più peso e potere, non si sprecherebbe l’occasione tanto invocata per dare consistenza, vitalità, credibilità a un Pd che aspetta “innovazione” e progetto politico. Come stiano andando le cose, lo si può capire meglio e subito dalla dichiarazioni di un D’Alema (la sua intervista recente a “Il riformista”) contrariato, come sempre, per quel che si sta facendo e dicendo. D’Alema punta il dito sul peggio di questa fase e che fa perder tempo: sbarrare il passo a “quelli di prima”, non tener conto che “noi dell’apparato siamo indistruttibili”, che il partito è soprattutto espressione degli iscritti, che le primarie sono “rese dei conti interne”, che la veltroniana “autosufficienza” fa perdere, che occorrono alleanze “estese” che sceglieranno loro il leader-premier. Tra i candidati poi per D’Alema è Bersani il toccasana, ma il suo punto di vista contiene anche qualche giusta esigenza: un partito forte (solo degli iscritti?), riformista, non una “comitiva di amici”, che concepisce l’innovazione come, egli dice, “innestata sulle nostre tradizioni e i nostri valori” (niente spazzamenti veltroniani con qualche outsider venuto clamorosamente alla ribalta), infine un nuovo progetto politico di centrosinistra. Strumentali o meno che siano queste posizione di un autorevole personaggio, veterano delle più calde fasi di tutto il cammino passato di parte del Pd, sarebbe davvero opportuno, al fine che il Congresso abbia una portata storico-politica decisiva per l’avviamento di un nuovo corso esistenziale e organizzativo, che il grosso del partito non se ne lasciasse intrigare, calandosi di nuovo nella “morta gora del “con lui” o “contro di lui”. Quello che non deve uscire dal Congresso, e nemmeno entrarvi, è una rinuncia a un pensiero critico, una pericolosa stagnazione di idee e di metodi. Vi sono temi, oltre quello di come mettersi alla prova per esistere veramente, sui quale vale la pena di impegnare le energie intellettuali che si hanno; uno di questi è certamente quello di una adozione e messa a fuoco di una linea ripensata a fondo di meridionalismo-riformismo (ma niente “Partito del Sud”) da far diventare centrale nelle deliberazioni congressuali e nelle pratiche nazionali e locali: ha ragione chi, come Sandro Principe, un serio e credibile politico riformista, non certo dell’ultima ora, insiste nel chiedere autorevolmente che quel problema invada il progetto politico che si vuole far nascere col Congresso.

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