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di LUCIA SERINO
Armanda e Teresa sono due zitelle, si intuisce subito. L’unico dubbio è l’età. Ci pensa subito Armanda a scogliere i dubbi. «Io ho 84 anni, mia sorella 82». Teresa non parla e non ti guarda, ha una giubba rossa di lana e si è portata dietro l’ombrello. Previdente in questa domenica fredda e piovosa potentina, 21 giugno di elezioni e ingresso – solo cronologico – dell’estate.
«Ma non parla più Teresa?». «Sì che parla, Teresa, dai rispondi alla signora».
Parla, ma non ti guarda. Sedute al tavolino del Gran Caffè, in attesa che ti alzi, «perché quello è il nostro posto, dove siete seduti voi», davanti alla grande vetrata dell’ingresso. Ci vuole poco a parlare con Armanda,chiamiamola così. Per cinquant’anni dattilografa al tribunale, quando il palazzo di Giustizia era ancora lì, di fronte al bar, nella piazza di Potenza.
«Sigaretta? E’ il mio vizio». Multifilter sottili che prende dalla borsa antica di pitone. Sono baffute come la vecchiaia porta ma hanno il rossetto, uguale, lo usano in due, è evidente. Sole, parenti lontani, a parte i morti. «Siamo zitelle e non me ne pento», ti dice convinta e lucida Armanda. «Sto bene, sapesse quante sentenze ho scritto, ero l’unica dattilografa, e quanti favori extra ho fatto agli avvocati». Alza la mano per accendersi una sigaretta e allora noti subito un particolare che ti ghiaccia, una mano che non è più una mano, ma un pugno senza dita, un’amorfo pezzo di carne rosso, rosso, come se il sangue circolasse ancora alla ricerca delle cinque direzioni che non hanno più sbocco. Armanda è di Potenza «mamma era di Avigliano, papà veniva da un paese dalle parti di Napoli. Ma non saprei più dire quale. Sono nata a febbraio, c’era la neve, mi teneva una vicina di casa, abitavamo a piazza “diciotto agosto” e quella stronza (sì, dice proprio così, usando un tono rabbioso che è così stridente con quella pelle raggrinzita) mi fece cadere nel fuoco del braciere. Io non ho mai avuto le dita e però ho fatto la dattilografa».
Pensi che è una leggenda, ma quelle due donne sono là, di fronte a te, Teresa immobile e Armanda in forza di racconti. «Sì, ho fatto la dattilografa perché ho sempre desiderato riavere le mie dita mozzate, e dovevo farcela, dovevo dimostrare che era capace». Avrà avuto gli occhi chiari, oggi grigi e umidi, ed è una grande rassicurazione vederla con la sigaretta godere delle nuvole di fumo. «Vendemmo tutto e ce ne andammo a Roma, ma l’aria della città a mia sorella non faceva bene. Siamo tornate e adesso abitiamo dietro la chiesa di San Michele». Ti sembra ingiusto avere fretta davanti a una donna che orgogliosamente ti dice: «Sto bene». Armanda si aggiusta la maglia di lana blu sulle spalle, è alta, magra, ben vestita, tutti i pomeriggi là, davanti al bar. Un segreto ce l’avrà, e se non ce l’ha ti piacerebbe immaginarlo. Ci pensa lei a sorprenderti, e in pochi secondi ascoltarla e guardarla supera il limite dell’immaginazione. «Le faccio vedere una cosa, signora….».
Fruga nella borsa, porta fuori una scatoletta con il fiocchettino, di quelle che si usano per i gioielli, la apre e te la alza sotto gli occhi: «Queste sono le mie dita mozzate…». Se non scappi è solo per capire se è vero. «Mia madre me le ha conservate». Rose dal fuoco di 80 anni fa, inscheletrite dal tempo, ingiallite, mummificate, protesi di ostinato ricordo umano. Spolpate giorno dopo giorno, ridotte a un cumulo di sfoglie, chissà conservate come. Armanda porta un po’ del suo cadavere nella borsa, e ne fa sfoggio. E te lo mostra come la fotografia di un marito morto in guerra. Ti immagini le mani sulla macchina da scrivere, quella sana e quella bruciata mostrata con fierezza. Meno male che è un domenica fredda. Il sudore dell’incredulità si asciuga in fretta.
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