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di LUCIA SERINO
Si opponevano due concezioni di mafia. Un giudice, Alberto Iannuzzi, la pensava in un modo e spedì in carcere un bel po’ di gente nel processo Iena Due. Altri giudici, quelli del riesame, presieduto da Daniele Cenci, la pensavano in modo diverso e scarcerarono.
Normale dialettica processuale, il nostro sistema giudiziario garantisce. Quel processo che risale al 2004 ancora non è concluso. Eppure ci fu dell’altro. I riverberi di quello scontro arrivano a oggi, a una settimana fa.
Il Csm presieduto da Nicola Mancino ha sanzionato con una censura l’ex gip (uno dei principali testimoni di De Magistris in Toghe Lucane) ora consigliere
d’Appello. Troppa animosità, troppo astio, troppo accanimanento nella critica che,
in teoria legittima, un giudice può rivolgere a un altro giudice. E così nel Palazzo dei veleni la pace è ancora lontana. Lascia sanzioni, trasferimenti e rancori. Nella Basilicata delle radicalità e delle posizioni ostinate i rapporti e le relazioni diventano scontri, litigi, critiche anche irridenti. E’ così che
la pensano i giudici del supremo organo di autogoverno della magistratura.
Uno dei nodi della radicalità dello scontro, in questi anni, è stato proprio il concetto di mafia e la sua esistenza in una terra sicuramente immune da fenomeni estremi come nel resto del Sud. E proprio il confine fluido del bene e del male accende le scintille. Può un patto associativo stipularsi per rogito?, pensava e scriveva più o meno così – di sicuro paradossalmente – Iannuzzi riferendosi alla valutazione che il collegio di Cenci aveva fatto del suo impianto probatorio che suffravaga le accuse del pm Woodocock. Insomma quali prove avrebbe voluto il riesame? Un atto notarile? “Irridente”, fu quella considerazione, giudica oggi
il Csm, e non è l’unico particolare.
Iannuzzi ebbe un comportamento che travalicava i normali rapporti processuali
diventando pregiudizievole per l’immagine della magistratura. La sentenza del Csm è, ovviamente, complessa.
Iannuzzi impiegò circa un anno per motivare il provvedimento con il quale rigettava alcune misure coercitive di Iena Due (irrituale, sottolinea il Csm,
troppo tempo) e quando depositò il provvedimento, (il Riesame, nel frattempo,
aveva già scarcerato gli altri indagati), in premessa e per molte pagine il Gip si dilungò a criticare la scelte dei suoi colleghi. Altri fatti sarebbero
successi dopo. Ma a questo punto, forse, serve poco ricostruirli. Troppi intrecci e troppi agguati dentro il palazzo di Giustizia. Il ragionamento va ben al di là
dei due protagonisti di questa vicenda. Il terremoto di questi anni, la guerra tra toghe, quella che si è mossa da Salerno a Catanzaro passando per Potenza, ha lasciato ancora macerie fumanti. Vecchio e nuovo che si accavallano, forse, ma troppi personalismi. Il protagonismo di un magistrato, va ripetendo De Magistris in risposta al monito del presidente Napolitano, se è oggettivo, se cioè è il frutto del suo lavoro, va difeso e sostenuto. Lui, nel frattempo, ha lasciato la toga e se n’è andato, politicamente vittorioso, a Bruxelles. La pace nei tribunali
è ancora lontana.

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