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di ROCCO PEZZANO
A pochi metri dal punto in cui si è ucciso l’indiano che si era fatto lucano, è
arrivato il plotone dei lucani che si sono fatti americani, australiani, asiatici. Ieri al Grande Albergo, accanto alla scalinata “Goffredo Mameli”, ha preso il via la riunione annuale della Commissione regionale dei lucani all’estero. E sembra quasi uno scherzo del destino che uno straniero oramai lucano si sia tolto la vita nel posto in cui arrivano i lucani oramai stranieri. Ma non è una tragedia della mancanza d’integrazione: il ragazzo aveva la vita di qualsiasi altro quindicenne italiano. Lo diceva ieri la sorella agli agenti della polizia, stretta a un operatore scolastico che l’aveva accompagnata e cercava di consolarla. Alla sorella era arrivato, ieri mattina all’orario dell’ingresso a scuola, il messaggino sul cellulare che annunciava il proprio gesto: «Sto al Grande Albergo. Mi sto per buttare. Troverete il mio corpo sotto la scala». L’annuncio di una volontà reale, chissà quanto meditata: il giovane si è dato fuoco e si è lanciato nel vuoto da un terrazzino lungo la gradinata. Dietro il nastro bianco e rosso che impedisce il passaggio sulle scale si muove la folla di agenti della questura, fra uomini della scientifica, della squadra mobile e di altri uffici. C’è anche qualche carabiniere: la caserma affaccia sul Grande Albergo e sulla gradinata.
Una bottiglietta di plastica viene segnata con un numerino: lì c’era la benzina
con cui il ragazzo si è dato fuoco. Gli agenti cercano di trovare qualche prima risposta alla domanda che martella tutti: per quale ragione mai un ragazzino di quindici anni può togliersi la vita?
La sorella, fra le lacrime, risponde: “no, non aveva mai tentato di fare nulla del genere. Sì, faceva una vita normale: giocava ai videogame come “Prince of Persia”, stava spesso davanti a un computer, suonava la chitarra insieme ai coetanei. Forse lo studio scolastico non era la sua grande passione. Qualche volta aveva detto: «Mi sento stanco». Ma chi non lo dice mai?”. Una frase che di sicuro non giustifica un suicidio.
La voce che circola, sul posto, è che sia stato un suicidio d’amore. Una cotta finita bruscamente da cui il cuore del ragazzo, a cavallo della pubertà, era uscito scosso. Lo accrediteranno anche le agenzie di stampa nel corso della giornata. Ma nessuno potrà mai sapere con certezza cosa è passato fra i pensieri
di questo ragazzo. Si raduna la folla sulla scale. Due persone, un uomo e una donna, dicono di aver visto il corpo del giovane «che ancora emanava fumo» sulle scale. Sono di fuori, e non ci tengono a dare nome e cognome. Intanto, la sorella del ragazzo si è rinfrancata a un bar lì vicino, bevendo un bicchiere d’acqua. Nel locale la clientela e il personale ammutoliscono apprendendo cosa sia accaduto. Sempre fra le lacrime, di nuovo fuori, la giovane fornisce i dati dei genitori, spiega che il padre lavora in una struttura socio-sanitaria del capoluogo. E puntualizza il cognome perché gli agenti lo stanno scrivendo sbagliato: cita una soubrette televisiva omonima per spiegarlo meglio.
Arriva la madre. Chiede ai poliziotti, ad alta voce, di spiegarle cosa sia accaduto. Un compito di quelli che fanno tremare i polsi. «E’ ancora vivo?Ditemelo», implora. Poi, quasi riflettendo fra sé: «Se fosse ancora vivo, mi avreste fatto venire in ospedale». Nel Grande Albergo, a breve, comincerà l’incontro dei lucani all’estero. Al suo interno, il Forum dei giovani. Si parlerà di quanto i ragazzi rappresentino il futuro della regione e del mondo. Fuori, un quindicenne che giocava ai videogame e suonava la chitarra si è tolto la vita.

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