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di ANTONIO CELANO
L’UOVO è dappertutto. Ci segue attraversando Torino fino a giungere al Lingotto, scorre le lunghe file di visitatori che attendono di fare il biglietto d’entrata, rotola tra i padiglioni e gli stand degli espositori. La presenza dell’immagine che meglio riassume il senso della ventiduesima edizione della Fiera del libro ci accompagna costantemente: un uovo che sta per dischiudersi e che chiama chi lo guarda a farsi forza, a uscire fuori dall’isolamento del proprio guscio per aprirsi agli altri, al mondo esterno.
Durante la Fiera, da quell’involucro esce davvero di tutto, inondando i 51 mila metri quadrati di spazi che hanno accolto gli oltre 1.400 editori presenti. Scrittori vecchi e nuovi, editori grandi e piccoli, istituzioni specializzate, operatori, temi affascinanti, presentazioni, dibattiti, spunti interessanti, lettori forti e in erba, intellettuali, semplici curiosi.
Un fiume che ci trascina via insieme a migliaia e migliaia di persone che scorrono, si fermano, creano ingorghi che si sciolgono improvvisamente, attratti da un dibattito, da un libro a lungo cercato, da un autore a cui chiedere un autografo.
In tutto questo turbinare a un tratto ci fermiamo e ci chiediamo se da quel guscio d’uovo possa uscire mai anche la Basilicata.
La domanda ci sorge spontanea appena incappati nel padiglione della Regione Campania, si ripete davanti a quello animatissimo della Regione Puglia, ci ossessiona ai piedi di quello ricolmo di libri della regione Calabria (così finiamo anche per emozionarci al cospetto dello scaffale espositivo dedicato alle vecchie edizioni delle opere di Saverio Strati). Ci chiediamo insomma se il pulcino Basilicata sia rimasto ancora una volta rintanato nel guscio, pauroso di mescolarsi alla festa.
Non ci consolano le sparute presentazioni a cura del nostro Consiglio regionale che presenta, con Prospero De Franchi, un libro di El Idrisi in un incontro intitolato “Sollazzo chi si diletta di girare per il mondo (e giunge quindi in Basilicata)”.
Né ci conforta la totale assenza degli editori lucani.
Certo, si dirà, come paragonare i poveri mezzi delle case editrici lucane al catalogo di alcuni editori calabresi, sardi o campani? Non ci crediamo, perché gli editori calabresi e sardi sopperiscono anche con orgoglio, voglia di fare, soprattutto con un pizzico di intelligenza.
Perché si consorziano, ottimizzando gli utili e dividendo i costi, peraltro costantemente supportati dalle loro istituzioni regionali.
Un atteggiamento coraggioso di cui la regione Basilicata ha saputo far sfoggio, non si sa quanto una tantum, solo alla fiera libraria di Roma dello scorso anno.
Invece alla festa di tutta l’editoria, quella grande e piccola, nulla.
Però cediamo all’amarezza e allo sconforto solo quel tanto che basta prima di scoprire che invece un’altra Basilicata ha deciso di uscire fuori dal quel benedetto guscio mettendo fuori le zampette già forti.
A interrompere il magone interviene infatti una gigantografia che a un tratto ci giunge dallo stand di un editore importante come è Marsilio.
Il viso che ci sorride è quello di Gaetano Cappelli. A Torino lo ha da poco presentato il suo maggiore sostenitore e promotore, il critico Antonio D’Orrico che lo ha portato non solo agli onori della cronaca letteraria, ma dritto filato nella quindicina dello Strega, il più ambito (e remunerativo in termini di vendite) premio letterario italiano.
Ci conferma tutto Filiberto Zovico, che ci accoglie con molta cortesia nello stand della casa editrice veneta.
«La candidatura di Cappelli l’abbiamo valutata proprio a seguito di una provocazione lanciata da D’Orrico in una delle sue entusiastiche recensioni allo scrittore lucano.
Detto fatto. Certo, avremmo potuto prendere in considerazione la cosa già ai tempi di ‘Storia controversa…’, ma forse i tempi non erano ancora maturi e comunque questo libro è resta assolutamente all’altezza di uno scrittore in cui crediamo fermamente.
Dopo che il fiuto di uno scopritore di talenti della sensibilità di De Michelis ci aveva consentito di scoprire Cappelli e di pubblicarlo, ritenemmo opportuno crescere con editori allora più importanti del nostro, seguendo una politica che abbiamo sempre fatto nostra.
Finché non è cambiata la situazione tanto da poter rinsaldare con Cappelli un rapporto sempre restato molto stretto».
Prima di lasciarci Zovico non ci nasconde di essere soddisfatto anche di Giuseppe Lupo sia per le vendite che per lo spessore artistico di uno scrittore comunque commercialmente più “difficile” in quanto legato a tematiche più territoriali e di diversa profondità storica, a cui Lupo “reagisce” con una capacità davvero unica di scrittura e scioltezza.
Andrea Di Consoli lo troviamo invece un po’ dappertutto: tra i libri dell’Ancora del Mediterraneo, editore partenopeo, e tra quelli Rizzoli, suo editore attuale che non ha certo bisogno di presentazioni.
Sulle sue tracce finiamo alla piccola ma promettente Hacca di Macerata, casa presa ora per mano da Francesca Chiappa che ha pensato bene di affidare a Di Consoli una collana che ha saputo subito far levitare con autori del calibro di Carraro e Paris, Veneziano e Bonina.
Ci parlano più diffusamente di lui anche Anna Grazia e Agnese Manni, dell’omonima casa editrice leccese.
« Andrea lo abbiamo seguito fin dai suoi esordi e siamo state molto felici di averlo in catalogo con un piccolo libro ma davvero ben scritto e ricco di vissuto e nostalgia come ‘Marisdea’.
Insieme a Raffaele Nigro, uno scrittore che nel carattere unisce dolcezza e determinazione, (nella stessa collana di Di Consoli ha pubblicato ‘Maschere serene e disperate’, ndr) è probabilmente uno degli scrittori più interessanti delle ultime generazioni di scrittori lucani.
In catalogo abbiamo avuto poi anche il piacere di avere Giancarlo Tramutoli, uno scrittore giovane, spigliato e irriverente.
Il lavoro editoriale su “Uno che conta” è stato davvero divertente».
Usciamo dal Lingotto con sentimenti contrastanti, sempre costretti come siamo a trovare una Lucania che non è mai dove dovrebbe essere, sempre costretta fuori da se stessa, lasciata a diluirsi nel mondo.
Il che ci amareggia, ma pure ci allieta, perché il talento non è mai così provinciale.
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