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di FRANCO CRISPINI
Su “Il Sole24Ore” di domenica scorsa, assieme a un sondaggio sul consenso alle forze politiche (eseguito da IpsosPa e condotto su giovani e anziani, livello di istruzione e “duello” delle professioni), abbiamo potuto leggere anche due interviste, del ministro Renato Brunetta e del deputato Pd Nicola Rossi, di commento al sondaggio stesso. I dati che si offrono alla analisi, sebbene non del tutto nuovi (vengono ripetutamente dati da più parti) e che, come succedeva per i sondaggi per le elezioni politiche dell’aprile scorso, sembrano premonitori degli esiti del 6 e 7 giugno, sono i seguenti: Pdl e Lega superano il 50% e raggiungono il 60% nella fabbrica, il Pd è al 26%, Di Pietro al 9% e l’UdC al 6% ; flusso di voti in uscita dal Pd a IdV e Unione di Centro.
È impressionante il balzo in avanti, rispetto al 2008, compiuto dal PdL, più di cinque punti percentuale, e la decrescita del Pd di sette punti circa. Cosa può giustificare mai un premio così consistente dato al partito di Berlusconi e al suo governo? E cosa penalizza così severamente il Pd?
Per più aspetti era difficile resistere a una reazione che nel caso del ministro Brunetta porta necessariamente a individuare nei risultati raggiunti dal governo Berlusconi le ragioni dell’accresciuto consenso soprattutto tra gli operai, nel mondo del lavoro, dove il premier “doppia” il Pd, e in quello invece del parlamentare Pd Nicola Rossi, il cui impegno per una elaborazione non generica del riformismo è abbastanza noto, si risolve nell’addebitare al suo partito un “radicamento sempre più labile” in alcuni segmenti dell’elettorato a preferenza di altri (intellettuali, una parte di dipendenti pubblici e della scuola, studenti, pensionati).
Soffermiamoci su entrambe le “reazioni” a questi continui sommovimenti del quadro politico italiano, sempre che i sondaggi ne siano una spia attendibile. Nell’intervento dell’”orrido” (l’aggettivo è suo) Brunetta, con piglio da sterminatore e aria trionfalistica, vengono enunciati tutti i meriti del successo irresistibile del Pdl: una cultura prolabour, la riforma dell’amministrazione pubblica (lotta ai fannulloni), trasparenza e meritocrazia: “Uno Stato che funziona toglie alibi”, alleanza, in nome di una cultura socialista e riformista, tra forze riformatrici, liberali e democratiche. Il ministro trae queste conclusioni: “La sinistra comunista e postcomunista non è mai stata riformista e non è mai stata dalla parte dei lavoratori: questa la tragedia e il paradosso: il vero centrosinistra è il Pdl”; “Il vero centrosinistra, l’erede del centrosinistra storico si chiama Pdl”: “La sinistra fa harakiri… È venuto fuori ormai che il re è nudo”.
Gli aspetti significativi di queste affermazioni sono tutti nella rivendicazione di una cultura riformista, da centrosinistra storico, che ispirerebbe una politica che ha il suo asse nel “merito-rischio”, che sa difendere il Welfare State anche contro il “velleitarismo conflittuale della Cigl”: nell’essere, sentirsi e operare da centrosinistra, è da ritrovare la ragione primaria della ascesa del Pdl e del suo aver trovato credito tra operai e disoccupati. Quel che dice Brunetta è certamente una buona provocazione per chi come Nicola Rossi indossa da anni la divisa di quel riformismo che è rimasto in una condizione labile e babelica e ora subisce una “migrazione” sulle sponde del Pdl e del suo governo, la quale, checché ne pensi il ministro, ha qualcosa di innaturale.
Per Nicola Rossi la “egemonia culturale oggi è del Pdl”: la sconfitta del Pd non è politica “è culturale, e se non lo si riconosce, non si ricomincia”. È proprio nella “battaglia persa del riformismo di sinistra la causa di un crollo di voti così pesante nel mondo del lavoro”, per cui, secondo Rossi, con una destra che ha vinto la battagliaper l’egemonia culturale, a Brunetta si può solo chiedere se veramente si può identificare nell’attuale maggioranza la componente riformista della politica italiana.
È un riformismo quello che si sta vedendo attraverso quanto sta facendo questo governo? Se è vero a parere di Rossi che dal lato del Pd c’è un insufficiente e babelico riformismo, se, per esempio, si può aggiungere, una politica meridionalistica non è più al centro del progetto riformista, è vero anche dall’altra parte, del Pdl, mancano i cardini fondamentali, non di una pretesa di riformismo, né di sporadiche aperture di credito ad azioni riformatrici, bensì di un piano di trasformazioni che favorisca lo sviluppo di tutte le parti della nostra società.
Ovviamente, le analisi di Rossi trovano altri collegamenti: il fallimento dell’operazione Lingotto, le dimissioni di Veltroni che sanciscono la “conclusione di una battaglia riformista”, la sconfitta culturale del “centrosinistra nella versione del Pd, le oscillazioni “né sì né no” sul federalismo, quel “non decidere” che “appare troppo timido al Nord e troppo aperturista al Sud”.
Insomma, simmetricamente, se Brunetta vede nel Pdl un riformismo “migrato” che però non c’è, Rossi non trova il riformismo per come dovrebbe essere dove dovrebbe trovarsi, cioè nel Pd . E tuttavia, che vi sia una egemonia culturale del Pdl, questo appare un dato innegabile che viene fuori dal sondaggio e dai commenti; se a farla essere sia stato un riformismo da centrosinistra assunto consapevolmente dal berlusconismo di governo, oppure una carenza di propositi e programmi legati alla veduta del riformismo la quale ha fatto perdere mordente e presa culturale, questo il vero problema che è rimbalzato tra le due interviste di Brunetta e Rossi.
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