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di GIUSEPPE DE BARTOLO*
Gianfranco Viesti nel suo ultimo libro “Mezzogiorno a tradimento”, presentato la fine dello scorso mese all’Unical e all’Assindustria di Cosenza, attraverso
una serie di dati e considerazioni puntuali confuta alcuni stereotipi che contribuiscono a far sì che il Mezzogiorno sia visto come un termine in sé negativo, mostrando invece che in fondo i problemi del Sud sono simili, anche se in maniera più critica, a quelli dell’intero Paese. Viesti conclude con un messaggio positivo e cioè che è nel Mezzogiorno e nei suoi giovani il motore della ripresa, motore che spetta alla politica, finora non all’altezza dei suoi compiti, di far partire rivedendo il modello di sviluppo. Ma ritorniamo su quest’ultimo punto. E’ vero: i giovani nel Sud rappresentano un “bene” ancora relativamente abbondante, ma questa riserva si sta riducendo sempre di più e dunque bisogna affrettarsi a renderla funzionale allo sviluppo. La necessità che il problema giovanile diventi il centro del dibattito pubblico è il tema trattato
in un recente libro di Livi Bacci dal titolo provocatorio “Avanti giovani, alla riscossa”, presentato a Roma presso l’Istat proprio qualche giorno dopo il dibattito sul libro di Viesti. Ragione vorrebbe – sostiene Livi Bacci – che
dall’incipiente scarsità dei giovani scaturisse la loro valorizzazione, la loro rapida ascesa; invece si verifica tutto il contrario. I giovani sono pochi, saranno pochi nel futuro e procedono in modo eccessivamente lento nella transizione allo stato adulto. Completano gli studi più tardi, entrano con ritardo nel mercato del lavoro o non vi entrano affatto, restano nella casa dei genitori più a lungo, mettono famiglia con molta diffidenza; hanno perduto nel
tempo peso economico. A questo proposito Livi Bacci ricorda che nel 1911 avevano meno di trenta anni il 10% dei medici, il 19% degli ingegneri e architetti, il 21%
degli avvocati, il 21% del clero. Nel 1991 queste percentuali erano scese rispettivamente al 2,9% per i medici, al 9,1% per gli ingegneri e architetti, al 7,4% per gli avvocati, al 4,2% per i sacerdoti! Nel giro di un secolo dalle spalle
dei giovani è stato tolto il peso dell’arretratezza; oggi essi sono di qualità migliore, però hanno una minore rilevanza sociale anche per erronee politiche pubbliche. Nel 1964, epoca del baby boom, i bambini superavano il milione, oggi si sono ridotti a poco più della metà a causa non solo del controllo delle nascite ma anche di un welfare familiare meno generoso di altri paesi. I danni alla collettività di tutto ciò sono notevoli, anche se di difficile quantificazione. Per esempio, è stato stimato che l’entrata tardiva nel mercato del lavoro dei giovani equivarrebbe ad una economia più piccola del 4-6%. Il ritardo nel decidere di metter famiglia e di avere figli comporterebbe una riduzione della fecondità. Il ritardo con cui si entra nella ricerca produrrebbe una perdita netta in innovazione non recuperabile nel resto della vita. Ma, se la sindrome del ritardo ha un prezzo pubblico rilevante, quello privato è relativamente basso e questa sindrome è scarsamente percepita grazie ad una serie
di ammortizzatori, uno su tutti il sostegno familiare. I giovani nel prossimo futuro dovranno fronteggiare molti impegni: più elevato debito pubblico; mercato
del lavoro più concorrenziale; lavorare di più per non avere di meno come pensione; fare più figli per riequilibrare la declinante demografia. Se si vuole rimettere in moto lo sviluppo è necessario dunque restituire loro le prerogative perdute attraverso politiche della formazione, del lavoro, familiari, abitative, fiscali maggiormente mirate a potenziarne il ruolo. L’allungamento dei percorsi formativi terziari, il sostegno all’acquisto della casa anziché all’affitto, politiche tributarie incentrate sul quoziente familiare sono azioni che hanno finalità positive e apprezzabili ma che non risolvono i problemi qui descritti, sostiene Livi Bacci. Il quale propone alcuni percorsi condivisibili: investire
nella scuola secondaria, valorizzando la formazione di chi non prosegue gli studi terziari. Ancora, rafforzando le prerogative dei giovani si innesca un processo
virtuoso che favorisce la ripresa della natalità; se la permanenza in famiglia è troppo lunga si riproducono le asimmetrie di genere e aumenta per la donna il costo dell’allevamento dei figli. Se l’obiettivo di riportare l’occupazione
giovanile a livelli europei fosse ottenuto in dieci anni ciò equivarrebbe a una crescita aggiuntiva del Pil tra il mezzo punto e il punto percentuale annuo. E non mi sembra poca cosa.

*Ordinario di Demografia all’Unical

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