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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Nello scorso febbraio è stato presentato al Parlamento afgano un disegno di legge secondo il quale le donne sciite non possono rifiutarsi di avere rapporti sessuali con i mariti. A ulteriore sottolineatura della dipendenza delle donne, si stabilisce che non sono autorizzate a uscire di casa o a cercare il lavoro senza il consenso di un uomo; che non possono cantare o suonare in pubblico; che le ragazze possono essere sposate a 16 anni e che esclusivamente al padre – e in
seconda battuta al nonno – sono affidate la custodia e l’educazione dei figli. Il Parlamento ha approvato con insolita celerità tale disegno di legge, nonostante
l’opposizione della società civile afgana, delle associazioni che lottano per i diritti delle donne, di politici progressisti. Tale legge, approvata con l’attivo sostegno del presidente dell’Afghanistan Hamid Karzai, ha sollevato giustamente un coro di critiche e proteste in tutto il mondo occidentale; ad esempio, quelle della segretario di Stato Hillary Clinton e, in Italia, della ministra Mara Carfagna. Tale coro è stato così ampio che il presidente Karzai ha poi congelato
il nuovo diritto di famiglia e si spera questo porti alla mancata promulgazione.
Si tratta di critiche e proteste totalmente condivisibili, dal momento che sono rivolte a una legge che sancisce senza ombra di dubbio come il tetto e il letto coniugale siano di fatto un “soggiorno obbligato” e “un capriccio per soli uomini” (Marino Niola, in “Il Mattino”, 1 aprile 2009). Anche noi potremmo agevolmente mostrarci indignati per una legge siffatta, sentendoci così
gratificati nel nostro indiscutibile progressismo. Eppure, qualche domanda potremmo pur farcela, a cominciare da quella sui costi che siamo disposti a pagare per essere legittimati a indignarci. Fino a che punto la cultura nella quale viviamo, integrati e, almeno parzialmente, soddisfatti, ha sviluppato una
diversa considerazione delle donne, come le ha concretamente tutelate, quali modelli paritetici tra uomo e donna ha potenziato e reso normalmente praticabili?
Negli stessi giorni della scandalosa approvazione della legge afgana i giornali hanno riferito di Amstetten (Austria), dove Joseph Fritzl segregò in cantina e
stuprò la figlia per 24 anni, facendole partorire sette figli. E ancora di Torino, dove L. M. è stata violentata dal padre Michele e successivamente dal fratello Giuseppe da quando era una bambina di 9 anni. In conseguenza di questi stupri a 17 anni la ragazza rimase incinta e nel dicembre del 1992, per un aborto,
fu accompagnata dai genitori all’ospedale Regina Margherita. Alla madre, Caterina, L. M. disse che il figlio era la conseguenza di uno stupro compiuto dal fratello; sotto accusa finì anche Michele, ma le analisi non consentirono di risalire alla identità del padre. I genitori, davanti alla segnalazione dei medici e alle domande dei carabinieri, la obbligarono a dichiarare di essere stata
violentata da un marocchino. Lo straniero, individuato nel nome e cognome, risultò estraneo ai fatti e ogni cosa si insabbiò. L’importante è che fosse indicato il colpevole, e quale soggetto prescelto quale capro espiatorio poteva
essere migliore di un marocchino, per eccellenza altro, violento, stupratore appunto, portatore comunque, proprio per la sua alterità, di minaccia?
L’esemplificazione dei “nostri” stupri, delle “nostre” violenze sulle donne potrebbe continuare a lungo, ma, anche a prescindere dagli episodi macroscopici dei reati sessuali, è nella quotidianità, tramata da infinite violenze minute, da innumerevoli disparità, che la concezione della donna, considerata “naturalmente”
inferiore, celebra il suo trionfo, ispirando modelli di comportamento che i giovani interiorizzano, recependoli come ovvi e perciò riproponendoli nei rapporti
interpersonali, tra le mura domestiche e negli spazi collettivi. Fin quando non procederemo a un’accurata ricognizione di siffatti modelli culturali, avviando
una loro radicale trasformazione, l’indignazione, anche quando in assoluta buona fede, per l’ignobile legge afgana saprà molto di facile “carità pelosa” e non
potrà apparire, come pur dovrebbe essere, convincente e coinvolgente.

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