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di LEONARDO R. ALARIO
Per chi in Calabria abbia ancora un po’ di pudore questi sono giorni di tristezza. Saverio Strati, lo scrittore più attento a registrare i rivolgimenti
socio-culturali della nostra regione senza infingimenti e idoleggiamenti e con chiarezza ed efficacia di rappresentazione,mettendo a fuoco i mali, che la inchiodano alla marginalità e al disagio economico, ma anche gli slanci liberatori; l’autore italiano più attento ai fatti sociali e, certamente, il più lucido fra quelli del nostro tempo; l’intellettuale riservato e schivo, libero dalla soggezione a cappelle politiche e culturali di moda, forte della sua esperienza di eterno viandante alla ricerca dell’uomo del tormentato Sud; Saverio Strati, le cui opere sono tradotte nelle lingue di tanti Paesi, cancellato dalla sua casa editrice per intolleranza verso una voce libera e pura, oggi abbisogna della legge Bacchelli per poter affrontare con dignità la vita, che, pur avrebbe dovuto continuare a esser serena e ricca di riconoscimenti.
In verità non sono triste solo perché il governo regionale della Calabria non ha tenuto nella giusta considerazione il suo grande figlio forgiatosi alla scuola del sacrificio, della volontà ferrea, del nutrimento intellettuale, o perché una grande casa editrice, dopo lunga e proficua collaborazione, emargina uno degli intellettuali più onesti, che abbia mai avuto l’Italia.
Sono triste anche e soprattutto perché Saverio Strati è stato dimenticato da chi, al contrario, dovrebbe coltivare la memoria, che fonda e dilata la coscienza, condannandolo a esser sconosciuto alle giovani generazioni.
Il fatto veramente grave e che è ignoto agli studenti calabresi, anche universitari, così come Vincenzo Padula, Corrado Alvaro (ahimé!), Fortunato Seminara e Leonida Rèpaci e, naturalmente, tutti gli altri nostri illustri scrittori. E lo ignorano certi docenti di Liceo, i quali, di conseguenza, non hanno mai tenuto ai loro allievi una sola lezione di letteratura calabrese contemporanea.
Quando insegnavo Lettere nella Scuola Media del mio paese, la prima preoccupazione era quella di scegliere un testo di narrativa, che fosse di autore calabrese. Per tre anni di seguito i miei allievi studiavano autori, tra cui, in modo preminente, Strati, i cui romanzi non sono altro che capitoli di un’unica grande epopea, quella del popolo calabrese, che offre stimoli forti al dibattito sulla fenomenologia socio-politica e culturale delle nostre popolazioni dal secondo dopoguerra alla realtà odierna.
Egli, con generosità ed entusiasmo, ha accettato per ben due volte, nel 1987 e nel 1990, di tener lezione ai miei allievi e, poi, d’incontrarsi coi docenti e coi genitori. Un’esperienza bella e utile per i ragazzi, nella cui memoria è rimasta viva la figura dello scrittore, che parlava del loro mondo, fatto di cose quotidiane radicate nella concretezza della vita intensamente vissuta, e aperto alla speranza garantita dal sapere, dal lavoro onesto, dal senso della giustizia, dalla fedeltà ai valori condivisi. E quei ragazzi hanno continuato a leggerlo e lo hanno fatto leggere ai loro figli.
In un così lungo itinerario fra le pagine, dense di luoghi, personaggi situazioni, di Strati il sostegno è venuto da Luigi Lombardi Satriani, Pasquino Crupi e, soprattutto, da Ottavio Cavalcanti e Domenico Scafoglio, con cui il confronto sulla narrativa del grande scrittore è continuato nel tempo.
Frutto delle nostre letture demologiche dell’opera stratiana è stata la pubblicazione, nel 1992, di alcuni interventi (miei, di Cavalcanti e di Scafoglio). Ottavio Cavalcanti, anzi, è, forse, attualmente, l’unico a parlare dei narratori calabresi e del loro rapporto con la cultura di tradizione orale in un’aula universitaria, così come lo è Domenico Scafoglio a proposito del grande Vincenzo Padula.
Ci siamo lagnati della difficile situazione economica, in cui oggi, immeritamente, versa il nostro amico. Non per questo dobbiamo sentirci la coscienza a posto. Dobbiamo fare proposte concrete. Va bene quella di applicare la legge Bacchelli invocata con forza da Vincenzo Ziccarelli intellettuale in trincea della vecchia guardia e sposata dal Quotidiano. Ma non basta. La Regione e le cinque Amministrazioni provinciali, pensando meno a finanziare sagre di villaggio, faranno bene ad assegnargli alti riconoscimenti, deliberando un congruo premio in danaro in suo favore per aver illustrato la Calabria nel mondo.
Personalmente proporrò al sindaco della mia città di conferire a Saverio Strati la cittadinanza onoraria, accompagnandola con un premio in danaro. E così farebbero bene a deliberare gli altri sindaci della regione. Sarebbe, allora, un bel coro possente, un coro di protesta per una situazione insostenibile dovuta alla protervia di un certo potere, un coro di affermazione del giusto riconoscimento a un intellettuale organico, il quale non si è contentato di sapere per svolgere efficacemente il suo ruolo nella definizione di una nuova concezione del mondo e della vita, ma si è, al contrario, proposto di sentire la passione e i sentimenti popolari per comprenderli e leggerli utilmente nel grande insieme della storia dell’uomo.
Al proficuo rapporto, cioè, fra intellettuale e popolo aderisce organicamente, alla luce della lezione gramsciana, e concretamente contribuisce, aprendo al lettore nuove occasioni di dibattito, e, perciò, nuove possibilità di comprendere e, quindi, di sapere. Proprio per questo Strati è stato condannato all’emarginazione; proprio per questo dev’esser levato dai Calabresi come uno stendardo, a cui guardare per camminare lungo la strada della consapevolezza, l’unica che apra alla libertà e alla salvezza.
Si faccia, dunque, studiare, nelle scuole l’opera stratiana; e se ne proponga la lettura critica nell’Università della Calabria e nei circoli culturali pullulanti nella nostra regione. È l’ultima proposta. Non permettiamo che i giovani calabresi ignorino i grandi uomini della nostra terra, i quali sono la vera classe dirigente del presente/futuro, da cui trarre ispirazione per scongiurare la già intravista lenta, progressiva, terrificante desertificazione delle nostre coscienze, della nostra stessa identità.
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